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‘Ndrangheta, politica e imprenditoria a “braccetto” nel Reggino, 65 arresti (NOMI)

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Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Domenico Creazzo, eletto nella consultazione elettorale del 26 gennaio scorso e sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte, è tra le 65 persone arrestate dalla Polizia nell’ambito dell’operazione Eyphemos, contro la ‘ndrangheta, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria. Le ordinanze di custodia cautelare riguardano capi storici, elementi di vertice e affiliati di un “locale” di ‘ndrangheta dipendente dalla cosca Alvaro di Sinopoli, considerata tra le più attive e potenti dell’organizzazione criminale. La Dda, inoltre, ha chiesto l’autorizzazione a procedere per l’arresto del senatore di Forza Italia Marco Siclari, anch’egli coinvolto nell’operazione. Per 53 delle persone coinvolte è stata disposta la custodia cautelare in carcere, mentre le restanti 12 sono ai domiciliari. Sono accusate, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, vari reati in materia di armi e di droga, estorsioni, favoreggiamento reale, violenza privata, violazioni in materia elettorale, reati aggravati dal ricorso al metodo mafioso e dalla finalità di aver agevolato la ‘ndrangheta e di scambio elettorale politico mafioso.

MISURE CAUTELARI IN CARCERE
1. ALATI Angelo, alias “il Marocchino”, nato a Scilla (RC) il 10.5.1977 (Presidente del
Consiglio Comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte);
2. ALVARO Cosimo, alias “Pelliccia”, nato a Sinopoli (RC) il 25.4.1964
3. ALVARO Cosimo, nato a Sinopoli (RC) il 26.11.1962;
4. ALVARO Domenico, inteso “Micu”, nato a Taurianova (RC) in data 1.12.1977;
5. ALVARO Salvatore, inteso “Turi” alias “Paieco”, nato a Sinopoli (RC) il 4.8.1965;
6. BAGNATO Giuseppe, inteso “Pinuccio”, nato a Reggio Calabria il 4.9.1962;
7. BORGIA Antonino, nato a Palmi (RC) il 11.6.1993;
8. CARBONE Domenico, alias “u Ciacio”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il 27.3.1965;
9. CARBONE Sarino Antonio, nato a Reggio Calabria il 13.6.1978;
10. CARBONE Vincenzo, alias “Ceo”, nato a Cinquefrondi (RC) il 9.8.1984;
11. CASTAGNELLA Carmelo, nato a Reggio Calabria il 10.4.1967;
12. CONDINA Vincenzo, alias “u Russu”, nato a Reggio Calabria il 7.10.1981;
13. CREA Antonio, alias “spatola”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il 3.8.1967;
14. CREA Emanuele, nato a Reggio Calabria il 27.1.1994;
15. CREA Giovanni, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il 5.5.1969
16. CREA Giuseppe, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il 3.2.1959;
17. CREAZZO Antonino, inteso “Nino”, nato a Reggio Calabria il 3.11.1982
18. CUTRÌ Pasquale, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il 22.12.1972;
19. DELFINO Nicola, nato a Reggio Calabria il 15.10.1983;
20. DELFINO Rocco Graziano, nato a Reggio Calabria il 6.9.1986 (latitante);
21. DOCENTE Luca, nato a Torino in data 11.11.1973;
22. FIRENZUOLI Attilio, detto “Nino” alias“Testuni”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il
26.11.1971;
23. FORGIONE Diego, alias “u peones”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il 13.11.1945;
24. FORGIONE Domenico, inteso “Dominique”, nato a Carlton (Australia) il 15.7.1973
(consigliere comunale di minoranza di Sant’Eufemia d’Aspromonte);
25. GAGLIOSTRO Antonino, inteso “Tony” alias “u mutu”, nato a Reggio Calabria il 5.5.1973
26. IDÀ Cosimo, alias “u diavulu”, nato a Reggio Calabria il 27.3.1977, (Vice Sindaco di
Sant’Eufemia d’Aspromonte, Assessore con delega al Bilancio, Programmazione, Tributi);
27. ITALIANO Giasone, nato a Delianuova (RC) il 16.10.1969;
28. LAURENDI Antonino, alias “ninareddhu u pistolu”, nato a Scilla (RC) il 2.2.1996;
29. LAURENDI Cosimo, nato a Milano il 4.9.1963;
30. LAURENDI Domenico, alias “Rocchellina”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il
7.10.1969
31. LAURENDI Rocco, nato a Cinquefrondi (RC) il 3.10.1996;
32. LUPOI Natale, alias “Beccaccia”, nato a Sinopoli (RC) il 10.06.1975;
33. LUPPINO Domenico, nato a Reggio Calabria il 7.6.1975, (responsabile dell’Ufficio
Tecnico del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte);
34. MACRÌ Girolamo, nato a Siderno (RC) il 15.10.1987;
35. MODAFFARI Bruno, alias “u filiciuni”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il
15.3.1969;
36. MODAFFARI Domenico, nato a Reggio Calabria il 24.9.1994 (dimorante ad Hannover in
Germania);
37. MODAFFARI Francesco, nato a Reggio Calabria il 19.6.1992 (dimorante ad Hannover in
Germania);
38. MODAFFARI Pasquale, alias “u filiciuni”, nato a Cinquefrondi (RC) il 13.10.1995;
39. MODAFFARI Vincenzo, alias “u ruggiatu”,nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il
27.11.1964;
40. NAPOLI Carmine, alias “Carminazzu”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il 4.10.1961;
41. NAPOLI Giuseppe Carmine, alias “‘mpizza”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il
22.6.1965;
42. NOVELLO Giuseppe, nato a Reggio Calabria il 30.5.1981[detenuto per altra causa];
43. ORFEO Diego, nato a Reggio Calabria il 5.6.1997;
44. ORFEO Giuseppe, nato a Sinopoli (RC) il 31.1.1967;
45. QUARTUCCIO Carmine, inteso “Carmelo”, nato a Sinopoli (RC) il 3.9.1968;
46. RESTUCCIA Domenico, nato a Gioia Tauro (RC) il 24.7.1992;
47. RIZZOTTO Giuseppe, nato a Taurianova (RC) il 20.7.1979;
48. ROMEO Francesco, nato a Palmi (RC) il 2.6.1981;
49. ROMEO Michele, nato a Reggio Calabria il 20.6.1975;
50. SCICCHITANO Giuseppe, nato a Palmi (RC) il 2.10.1989;
51. SPALIVIERO Giorgio, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 28.4.1970;
52. SPERANZA Giuseppe, alias “u longu”, nato a Taurianova (RC) il 18.5.1980;
53. VITALONE Francesco, nato a Palmi (RC) il 5.7.1981;

MISURA CAUTELARE AGLI ARRESTI DOMICILIARI
1. CANNIZZARO Cosimo, alias “spagnoletta”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC)
l’1.4.1944;
2. CANNIZZARO Francesco, alias “Cannedda”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il
23.6.1930;
3. CREA Emanuele, alias “Ciccellino”, nato a Messina il 4.6.1933;
4. CREA Francesco, nato a Taurianova (RC) il 16.1.1950 [assicuratore];
5. CREAZZO Domenico, nato a Desio (MB) il 12.7.1977, [Sindaco di Sant’Eufemia
d’Aspromonte (RC), neo eletto Consigliere Regionale della Calabria];
6. FEDELE Mauro, nato a Cinquefrondi (RC) il 12.10.1995;
7. GALLETTA Giuseppe Antonio, nato a Reggio Calabria (RC) il 21.11.1962 [medico];
8. IANNÌ Rocco, nato a Scilla (RC) in data 8.2.1967 [ristoratore con attività commerciali a
Bagnara Calabra e Milano];
9. LAURENDI Rocco, alias “Rocchellino”, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) il
3.10.1944;
10. LUPPINO Antonio, inteso “‘Ntony” alias “Malomu”, nato a Palmi (RC) il 13.4.1968;
11. NAPOLI Carmelo, nato a Cinquefrondi (RC) il 28.7.1993;

La posizione di Marco Siclari. Per il senatore di Forza Italia eletto in Parlamento nel marzo del 2018, l’esecuzione della misura cautelare resta sospesa in attesa della delibera della Camera di appartenenza alla quale è stata richiesta da parte della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria l’autorizzazione a procedere.

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Eyphemos, l’appoggio del clan e la scalata di Creazzo al Consiglio regionale

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Un’organizzazione mafiosa “pericolosissima ed efferata”. In grado di controllare capillarmente il territorio anche attraverso l’imposizione di estorsioni agli imprenditori. È la ‘ndrangheta a Sant’Eufemia d’Aspromonte, centro nevralgico dell’ultima inchiesta firmata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e condotta sul campo della Squadra Mobile reggina e dal personale del Commissariato di Palmi. Documentata l’esistenza di una struttura che opera alle dipendenze della locale di ‘ndrangheta capeggiata di Sinopoli facente capo alla cosca Alvaro. Due le articolazioni mafiose presenti sul territorio secondo quanto riscontrato dalla Dda nell’inchiesta non a caso denominata “Eyphemos”: l’una facente capo a Domenico Laurendi e l’altra a Cosimo Idà. “Il locale di ndrangheta eufemiese – spiegano gli inquirenti – dipende funzionalmente, dalla vicina cosca degli Alvaro, alla quale tributa onori e riconoscimento oltreché sottomissione gerarchica; ha instaurato forme di utilitaristica interazione con consorterie di diversa matrice mafiosa; ha infiltrato con propri uomini anche la cosa pubblica, ossia il Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, sul quale esercita influenza e governa le attività economiche imprenditoriali”.




La ‘ndrangheta in Comune.  L’intera attività investigativa ha avuto come perno centrale la figura di Domenico Laurendi, processato per associazione mafiosa e assolto in secondo grado nel procedimento “Xenopolis”. L’azione della‘ndrangheta è risultata talmente pervasiva da essere riuscita a collocare – secondo l’ipotesi accusatoria – i propri rappresentanti ai vertici dell’Amministrazione Comunale. “Ed invero, con il ruolo di capo, promotore ed organizzatore dell’associazione mafiosa è stato colpito dalla misura cautelare della custodia in carcere il vice Sindaco, Cosimo Idà alias “u diavulu”, artefice – sostengono gli investigatori – di diverse affiliazioni che avevano determinato un attrito molto forte con le altri componenti del locale di ‘ndrangheta eufemiese e l’alterazione degli equilibri nei rapporti di forza tra le varie fazioni interne allo stesso”.

La scalata di Creazzo. Nell’inchiesta si innestano anche – e questo denota la particolare pericolosità del sodalizio criminoso – altri inquietanti episodi che comprovano il totale asservimento di alcuni esponenti politici alla ‘ndrangheta eufemiesee degli Alvaro. Domenico Creazzo, sindaco del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, nel coltivare e realizzare il progetto di candidarsi e vincere le ultime elezioni regionali del gennaio 2020, si sarebbe rivolto alla‘ndrangheta, ovvero a Domenico Laurendi. Quest’ultimo, a sua volta, si sarebbe subito detto disponibile a sposarne l’iniziativa politica che avrebbe portato il candidato di Fratelli d’Italia ad essere eletto consigliere regionale nella Circoscrizione Sud. Dall’indagine emerge che dapprima sarebbe stato il fratello di Creazzo, Antonino, a procacciare voti “grazie alle sue aderenze con figure apicali della cosca Alvaro” e poi direttamente il primo cittadino “al fine di sbaragliare gli avversari politici”. “Dalle parole captate di Antonino Creazzo emergeva – scrivono gli inquirenti – uno spaccato professionale del fratello Domenico Creazzo non limpido, anche in relazione alla sua funzione di presidente del Parco dell’Aspromonte nel cui svolgimento risulterebbe avere assecondato varie richieste a fini puramente clientelari”. Uno spaccato che emergerebbe chiaramente dalle indagini. “Per motivi di strategia e di opportunità, si era quindi statuito – osserva la Dda – che Domenico Creazzo evitasse frequentazioni o anche il semplice accompagnamento con soggetti notoriamente inseriti nell’ambiente della criminalità organizzata e portasse avanti una campagna elettorale sobria”.

Voto di scambio. Secondo l’accusa, quindi, l’intendimento però non era quello di chiudere le porte alla ‘ndrangheta, il cui bacino di voti avrebbe potuto fare la differenza con gli altri candidati, tanto che si era pensato “non di rinunciare a quel tipo di sostegno, quanto di delegarne la richiesta ad intermediari che, in quanto meno esposti pubblicamente, avrebbero potuto relazionarsi, dando meno nell’occhio, con gli ambienti mafiosi. La conduzione spregiudicata della campagna elettorale veniva pertanto delegata al fratello Antonino Creazzo”.  Consigliere metropolitano ed ex vice presidente del Parco nazionale d’Aspromonte, in quota Pd, Domenico Creazzo ha quindi scelto alle regionali dello scorso gennaio di sposare la causa di Giorgia Meloni e, con il suo risultato elettorale, ha aiutato la crescita di Fratelli d’Italia, raccogliendo il 16% delle preferenze della sua lista risultando quindi eletto. Non ha fatto neanche in tempo ad insediarsi a palazzo Campanella. Dovrà ora difendersi dalla pesantissima accusa di voto di scambio politico per la quale questa mattina è stato arrestato e posto ai domiciliari.

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Ordigni esplosivi per agevolare la ‘ndrangheta, chieste due condanne

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Due condanne a 8 anni di reclusione ciascuno sono stati chiesti dal pm della distrettuale Elio Romano per Luigi Vincenzini, 32 anni e Piero De Sarro, 35 anni, entrambi di Lamezia, giudicati con rito abbreviato, accusati di detenzione illegale di armi portate in luogo pubblico, ricettazione e resistenza al pubblico ufficiale. L’avvocato Antonio Larussa per Vincenzini e Giuseppe Di Renzo per De Sarro hanno invocato l’assoluzione dei loro assistiti e in particolare Larussa ha chiesto l’inutilizzabilità dell’accertamento tecnico sulla micidialità dell’esplosivo. Il gup del Tribunale di Catanzaro Alfredo Ferraro ha aggiornato l’udienza al prossimo 12 maggio, giorno in cui verrà emessa la sentenza.  Secondo le ipotesi di accusa, entrambi avrebbero detenuto e portato in luogo pubblico, cinque ordigni esplosivi artigianali di micidiale potenza “tutti innescati con 70 centimetri di miccia a lenta combustione”, trasportandoli a Lamezia, su mandato di Antonio Mazza, Antonio Miceli, Pasquale Caligiuri e Antonio Saladino, (la cui posizione è stata definita separatamente). Gli ordigni, secondo la pubblica accusa, sono stati acquistati “o comunque ricevuti” da un ignoto fornitore campano.  Vincenzini e De Sarro furono arrestati in fragranza di reato, mentre viaggiavano a bordo di un’auto presa a  noleggio, non senza opporre resistenza ai militari della Compagnia di Lamezia. Non si  fermarono all’alt dei carabinieri, aumentando la velocità di marcia proprio in prossimità dei militari. Sono stati necessari i rinforzi di altre due auto dei carabinieri per far finire la corsa dei due imputati. Fatti aggravati dalle modalità mafiose, per aver agito al fine di agevolare la cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri.  (g. p.)

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Dissequestrato un impero milionario al re degli yacht

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Non ci sono prove di pagamenti sottotraccia, irregolari vantaggi “acquisiti nell’ambito della concorrenza tra imprese operanti nel medesimo territorio, assunzioni privilegiate di personale o altro qualsivoglia elemento che possa indurre a ritenere Cavarretta persona collusa con l’ambiente mafioso in cui si trova ad operare e in cui diventa inevitabile avere saltuarie occasioni di incontri”.  Francesco Anselmo Cavarretta, definito la cassaforte del clan Arena, il socio Giuseppe Colacchio, i familiari Caterina Carchivi, Gregorio Cavarretta, Maria Rosa Belluomo Anello e Giuseppe Messina ritornano nella disponibilità dei beni milionari, “sigillati” tre anni fa.  La Corte di appello di Catanzaro, presieduta da Fabrizio Cosentino, dopo l’annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione, ha accolto le istanze difensive dei legali Anna Marziano, Fabrizio Costarella, Giuseppe Gervasi, Giuseppe Barbuto, Piero Chiodo e Carmine Mancuso, decretando il dissequestro di un patrimonio milionario e la revoca della misura di prevenzione di 3 anni applicata a Cavarretta, noto anche come il re degli yacht.

I sigilli al patrimonio milionario.  Una vicenda iniziata l’1 marzo 2017 quando il Tribunale di Crotone aveva disposto su richiesta della Dda di Catanzaro un provvedimento di sequestro di beni mobili, immobili, disponibilità finanziarie e partecipazioni societarie per un valore di circa 21 milioni di euro. In particolare erano stati posti i sigilli sulle partecipazioni in 13 società in Calabria, Lombardia e Toscana, aventi per oggetto sociale l’attività nautica/cantieristica, immobiliare ed alberghiera; un complesso turistico-ricettivo, con annessa azienda agricola estesa e due opifici. Sigilli a tre immobili a Crotone, Isola di Capo Rizzuto e Cotronei, un terreno edificabile di circa 43 mila metri quadri a Le Castella, due auto e un quad, quattro polizze assicurative sulla vita per un valore di oltre un milione di euro e un bar. La Corte di appello aveva poi confermato il provvedimento il 9 marzo 2018 in base ad una serie di elementi: dalla vicinanza di Cavarretta con il clan Arena, all’attribuzione fittizia della titolarità di un terreno a Isola Capo Rizzuto alla società di capitali Milano Marittima. Tra l’altro, da una verifica della Guardia di finanza sarebbe emersa la sproporzione tra quanto dichiarato e la situazione patrimoniale, in riferimento al fallimento della società di capitali Catarsi srl, voluto,  per realizzare e manutenere la fattoria “Il Borghetto”, elegante struttura turistico-ricetiva nei pressi della propria abitazione, intestata alla società Ita srl. I giudici di secondo grado a conferma della pericolosità sociale di Cavarretta, aveva fatto leva anche sul dichiarato di tre collaboratori di giustizia: Giuseppe Vrenna, Luigi Bonaventura e Giuseppe Giglio.




Nessuna pericolosità sociale. Ma a parere della Corte di appello bis, si è in presenza di rivelazioni in parte non attuali e in parte non riscontrate in atti.  Vrenna riferisce di aver ricevuto da Cavarretta nel 2000 un omaggio in denaro di venti milioni di lire da Cavarretta, presentato da Mario Esposito affiliato al clan Arena, che lo descrive come un imprenditore benestante che si stava facendo strada nella fabbrica di costruzioni e barche. Anche Bonaventura si riferisce a fatti datati nel tempo quando lo indica come un uomo dedito a praticare usura. Giuseppe Giglio, l’ imprenditore arrestato nell’ambito del processo Aemilia, lo descrive come persona vicina al clan Arena, ma al contempo sottoposto a pretese economiche da parte dei Nicoscia. Secondo il pentito, Cavarretta nel 2014 aveva intenzione di realizzare un villaggio turistico in località Le Castella e l’avrebbe potuto fare solo intestando il terreno a Pino Colacchio, persona che aveva il potere secondo il collaboratore, di cooptare nell’affare tutti gli ‘ndranghetisti isolani.  Da un lato, secondo la Corte di appello bis, quindi si fa riferimento alla figura di un imprenditore sottoposto al pagamento del pizzo, vittima e non sodale, dall’altro ad un episodio privo di riscontri. Per i giudici di appello una volta venuto meno il presupposto della pericolosità sociale di Cavarretta, “sarebbe superfluo verificare il profilo patrimoniale dove non sia possibile delineare un perimetro temporale di comprovata adesione ai gruppi mafiosi e gli illeciti arricchimenti” .

L’impresa di famiglia.  Del resto Giuseppe Colacchio titolare all’85 per cento delle quote di Milano Marittima è stato assolto dal reato di intestazione fittizia dei beni dalla Corte di appello di Catanzaro, Giuseppe Messina ha dimostrato la provenienza lecita dell’appartamento ricevuto in donazione da Cavarretta nel 2015, così come dimostrata la liceità dei beni intestati a Carchivi, Gregorio Cavarretta e Belluomo . “Quel che emerge dagli atti dunque è al più un’attività economica di Cavarretta, che coinvolge nei propri investimenti i familiari, senza che si possa trarre un anche solo indiretto interessamento degli Arena” negli affari dello stesso imprenditore.

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‘Ndrangheta a Reggio, oltre 80 anni di carcere alle cosche di Archi

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Il gup del Tribunale di Reggio Calabria Pasquale ha condannato a venti anni di reclusione per associazione mafiosa, estorsione aggravata e violenza privata Franco Polimeni e Andrea Vazzana, nell’ambito del processo ‘Thalassa’ scaturito dalle indagini coordinate dal sostituto procuratore antimafia Stefano Musolino.  Polimeni, già indagato per l’omicidio di un tabaccaio, e Vazzana sono esponenti di primo piano delle cosche della ndrangheta di Archi, dirette da Giovanni Tegano “uomo di pace” e Pasquale Condello “u supremu”, detenuti da tempo.

L’inchiesta, che ha coinvolto anche tecnici e funzionari del comune di Reggio Calabria che avevano rilasciato documentazioni per la realizzazione di un grande complesso residenziale ad Archi.  Con Polimeni e Vazzana, sono stati inoltre condannati il funzionario comunale Peter Battaglia, fratello dell’ex consigliere regionale Domenico Battaglia (tre anni e quattro mesi), Anna Maria Cozzupoli (quattro anni e sei mesi), Giuseppe Crocè (tre anni e quattro mesi), Pietro Zaffino (quattro anni eotto mesi), Francesco Vazzana (tredici anni e quattro mesi).

Assolti perché il fatto non sussiste: Natale Barillà, Giuseppe Cuzzucoli, Pasquale Labella, Giuseppe Pellicone, Vincenzo Pellicone, Giorgio Benestare Fortunata Crocè, AndreaFirriolo

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Il Coronavirus non “contagia” la ‘ndrangheta: i clan pronti a cavalcare la crisi

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Immagina: cosa farai quando la pandemia sarà finita? Dopo la botta di euforia iniziale, dopo gli abbracci, dopo le prime boccate d’aria fresca. Cosa farai? Ci sarà un mondo, là fuori, da ricostruire. E ognuno di noi tornerà al proprio lavoro per rimboccarsi le maniche e far rinascere la Calabria, che, siamo sicuri, ce la farà. Ma non sarà facile. Con l’economia in ginocchio, negozi che già prima faticavano a rimanere aperti, con aziende che si ritroveranno con molti meno soldi a disposizione per investimenti e dipendenti, non sarà facile. Ecco, in questo contesto: cosa faresti se fossi uno ‘ndranghetista?

La grande liquidità a disposizione. La crisi post Coronavirus sarà terreno fertile per la criminalità organizzata. Il ragionamento è molto semplice: un sistema economico in forte difficoltà apre la strada chi ha ingenti capitali da investire. E l’enorme liquidità monetaria della ‘ndrangheta non è certo un segreto. Ci saranno aziende pronte a chiudere, disposte a vendere la propria attività al primo offerente. Ci sarà chi avrà bisogno di prestiti, e con le banche non ben disposte gli strozzini appariranno l’unica soluzione. Ci saranno finanziamenti pubblici, bandi, appalti, pronti ad essere assaltati da colletti bianchi corrotti e imprese in capo a prestanome. La mafia non resterà certo a guardare.

Aumento di furti e rapine. Nei periodi di crisi, inoltre, la “piccola” criminalità mafiosa aumenta. È sentore comune, supportato da diversi studi scientifici, che la riduzione delle opportunità nel mercato del lavoro favorisce la commissione di attività criminose. Persone in forte difficoltà, con grossi problemi economici alle spalle, possono ben cadere nella trappola della ‘ndrangheta che promette soldi facili. Con conseguente aumento di furti, rapine, truffe, spaccio di droga. E dire “no”, non sarà facile. Non lo era prima, figuriamoci adesso. Il perché lo descrive molto bene il giornalista antimafia Roberto Saviano: “È solo nei tempi di pace e benessere che la scelta è possibile. Se hai fame, cerchi pane, non ti importa da quale forno abbia origine e chi lo stia distribuendo”.

Il report di Unimpresa. A denunciare questo pericolo è stata qualche settimana fa anche Unimpresa (l’Unione nazionale delle imprese), che in un report in via di pubblicazione spiega: “Piccole e medie imprese a prezzi di saldo saranno un potenziale affare per la criminalità organizzata. L’emergenza causata dal Coronavirus corre il rischio di spalancare le porte a camorra, mafia e ‘ndrangheta. Sempre pronti ad approfittare delle crisi economico-finanziarie, i vertici delle organizzazioni criminali, che dispongono di grandi capitali, si preparano a speculare sulle inevitabili crisi a cui andranno incontro decine di migliaia di attività imprenditoriali su tutto il territorio nazionale”. Con il presidente di Unimpresa, Giovanni Ferrara, che ha commentato: “Bisogna assicurare la massima liquidità per evitare che gli imprenditori finiscano in ginocchio, strozzati da debiti di varia natura, e si arrendano svendendo le loro attività alle organizzazioni criminali”.

La soluzione è nella responsabilità di ognuno. Questa situazione non deve però farci cadere nella trappola mentale del “va beh, si sa che le cose vanno così”. E no! “Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così” diceva qualcuno che, di mafia, se ne intendeva non poco. Era il giudice Giovanni Falcone, che aggiungeva: “Solo che, quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare”. Il punto è tutto qua, sta a noi. La politica dovrà fare il suo, è vero, dovrà impegnarsi a tutti i livelli per offrire un sistema valido di aiuti economici. E forze dell’ordine e magistratura dovranno lavorare con ancor più vigore di prima. Ma non deresponsabilizziamoci. Il mondo post pandemia sarà diverso da quello ante pandemia, perché il mondo di prima era parte del problema. Pensate a quanto marcio c’è nel nostro territorio. Se vogliamo imparare la lezione di questi giorni di isolamento forzato, starà a ognuno fare il suo. Rifiutando strade all’apparenza facili ma pericolose, trovando il coraggio di denunciare quando necessario e collaborando con le forze dell’ordine. In altre parole: lavorando onestamente. Tutti, nessuno escluso: giornalisti, imprenditori, impiegati, insegnanti, liberi professionisti. Tutti. Senza mai dimenticare – in casa, in ufficio, per le strade – la potenza rivoluzionaria della solidarietà e dell’aiuto reciproco.

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Coronavirus, demA: “Emergenza sanitaria momento ideale per la ‘ndrangheta”

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L’emergenza sanitaria, con tutto ciò che comporta, è il “momento ideale” per gli affari della ‘ndrangheta. Lo afferma Pietro Marchio, coordinatore del dipartimento giustizia demA-Calabria – il movimento “Democrazia e Autonomia” fondato da Luigi De Magistris – che spiega: “Ogni emergenza nazionale porta con sé disagi e caos a livello politico e sociale. Nei settori del pubblico commercio, emergenze di un certo livello di calamità, come quella che sta attraversando l’Italia nell’ultimo mese per via del Coronavirus, aumentano le possibilità di guadagno per alcune società, in quanto sono costrette a produrre un fatturato tre o quattro volte maggiore rispetto alla norma per fronteggiare la crisi e una tale produzione potrebbe attirare l’interesse della ‘ndrangheta”.

Monopolio sui mass media. “Come avviene in questi casi – prosegue – le emergenze sanitarie o umanitarie, monopolizzano l’attenzione mediatica: i meccanismi criminali non occupano più il loro spazio nelle cronache. Il Covid -19 quindi, è il momento ideale per la ‘ndrangheta per un possibile rilancio in quei settori in cui, per via delle inchieste giudiziarie degli ultimi mesi, non è stato possibile ottenere i risultati sperati”.

Favorito lo spaccio di droga. L’emergenza ha anche favorito le cosche sull’ingrosso della diffusione delle droghe. In questo momento, infatti, “i controlli nei porti internazionali sono diminuiti e i carichi passano con maggiore facilità. Anche in Europa dopo la chiusura dei confini, le mafie traggono vantaggio perché hanno i mezzi e gli uomini per arrivare ovunque e fare della chiusura un’opportunità di guadagno e perfino in maniera indisturbata. Per non parlare delle piccole e medie imprese, che contano ingenti perdite di denaro e che dovranno contrastare una crisi economica post-virus, in cui il pericoloso baratro del fallimento sarà alle porte se il governo non manterrà la parola data nell’ultimo Consiglio dei ministri”.

I numeri della ‘ndrangheta. “Detto ciò – continua Pietro Marchio – vediamo con qualche dato di cosa stiamo parlando: la ‘ndrangheta è in grado di fatturare 52,6 miliardi all’anno, numeri degni di una grande multinazionale. La stima sul giro d’affari è pari al 3,4% del Pil italiano. Il traffico di stupefacenti porta nelle casse della malavita 24 miliardi, il riciclaggio circa 20 miliardi, le estorsioni 3 miliardi, mentre in crescita costante è il guadagno sul gioco d’azzardo che è in grado di garantire 1,3 miliardi annui alle cosche”.

A fine pandemia serviranno interventi concreti. “Numeri in grado di contrastare qualsiasi emergenza. Numeri che potrebbero moltiplicarsi fino alla fine del 2020. Numeri che permettono alle cosche presenti sui territori di dimostrare ancora una volta la loro ‘vicinanza’ ai lavoratori e alle imprese in difficoltà, in situazioni estremamente complicate”. “Per cui – conclude il coordinatore di demA Calabria – con il superamento della pandemia, ci sarà bisogno di un più deciso e concreto intervento sul piano socio-economico contro le cosche di ‘ndrangheta, per recuperare quel ‘bonus’ concesso loro per via della crisi sanitaria a livello mondiale”.

 

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Nascondeva oltre 530 chili di cocaina: arrestato figlio del boss Molè (VIDEO)

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Nascondeva oltre 537 chilogrammi di cocaina e oltre 24 chilogrammi di marijuana. Per questo gli investigatori della Squadra mobile di Reggio Calabria, coadiuvati dai colleghi del commissariato di Gioia Tauro, hanno arrestato in flagranza di reato Rocco Molè 25 anni, figlio dell’ergastolano Girolamo Molè, 59 anni, considerato il capo dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta operante a Gioia Tauro.  L’arresto è scaturito da alcune perquisizioni eseguite quella mattina dagli investigatori della Polizia di Stato in un capannone e alcuni terreni nella disponibilità di Molè in località Sovereto di Gioia Tauro. All’interno del capannone, dentro alcune ceste di plastica, sono stati rinvenuti 150 panetti di cocaina sistemati – due per ogni busta di cellophane termosaldata – in 75 pacchi.




Le perquisizioni, estese ad alcuni fondi coltivati ad agrumeto nelle vicinanze del capannone, pure nella disponibilità di Molè, hanno permesso di individuare un ulteriore ingente carico di cocaina, occultato al di sotto della superficie del terreno. Determinante ai fini del ritrovamento del carico di droga è stato lo spirito d’osservazione degli operatori della squadra mobile i quali hanno notato che in un punto la superficie del terreno era stata manomessa.  Le conseguenti operazioni di scavo hanno portato alla luce altri 340 panetti di cocaina contenuti in pacchi di plastica sigillati. Alcuni pacchi riportavano il logo Tim, altri quello della squadra di calcio spagnola Real Madrid. Gli esami della polizia scientifica hanno permesso di accertare che la sostanza rinvenuta in panetti era cocaina e che il peso complessivo era di 537,526 kg lordi.  Estesa all’abitazione di Molè, a Gioia Tauro, la perquisizione ha permesso di procedere al rinvenimento e sequestro di un ingente quantitativo di marijuana, custodita all’interno di 53 involucri elettro saldati, per un peso complessivo di 24,624 kg lordi. Nell’ambito delle attività è stata sequestrata a Molè anche una denuncia di semina di cannabis sativa, vidimata il 20 giugno 2019. Molé, presente sul posto nel corso delle perquisizioni, ha detto e agli investigatori della squadra mobile di essere l’unico detentore responsabile della quantità di droga sequestrata, sicché è stato tratto in arresto e tradotto, al termine degli accertamenti di rito, presso la Casa Circondariale di Palmi. Il Gip presso il Tribunale di Palmi ha convalidato l’arresto e su richiesta della locale Procura della Repubblica ha applicato a Molè la misura cautelare della custodia in carcere.

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Inchiesta Stige, le direttive date in carcere dal boss Farao a figli e gregari

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Diverse sono le fonti di prova che consentono di ritenere acclarata l’esistenza del potere criminale del locale Farao- Marincola di Cirò. Una famiglia di ‘ndrangheta che negli anni si è caratterizzata da alleanze e scissioni, con fasi di lacerazioni e di contrasti anche violenti e che costituisce un’importante articolazione della “Provincia” di Nicolino Grande Aracri, a cui è legata in una sorta di cartello unitario.

Le strategie dettate dal carcere. Il gup, nella motivazione della sentenza Stige riporta una serie di colloqui carcerari tra il boss Giuseppe Farao e i suoi familiari, colloqui che forniscono uno spaccato delle strategie operative del locale cirotano, dei rapporti sul territorio calabrese con altre consorterie contigue, dal locale di Cutro alla ‘ndrina di Strongoli, dell’espansione commerciale nel Nord Italia, sino alle attività di export in Germania. Colloqui in carcere che dimostrano la vitalità della cosca, malgrado i fratelli Farao, Silvio e Giuseppe fossero in carcere. Le risultanze intercettive hanno consentito di dimostrare non soltanto che il sodalizio è coeso, ma che rimane diretto  dai fratelli Farao e Cataldo Marincola, nonostante le sbarre, nominando per la gestione degli affari Pino Sestito, Ciccio Castellano, Marino Cariati, Peppe “U Bandito” e Salvatore Morrone, “U biondo”, in costante rapporto con i figli di Silvio e Giuseppe Farao, a cui  passavano informazioni da veicolare ai capi detenuti. Erano questi ad avere l’ultima parola sulle decisioni delle attività della cosca.

Le imbasciate Giuseppe Farao pretendeva di incidere sulle strategie di sviluppo della cosca, oltre ad assicurare il sostentamento economico per i propri figli e degli altri capi detenuti. Il boss veniva costantemente aggiornato sulle attività imprenditoriali dei sodali cirotani, dando a sua volta, indicazione sulla selezione dei prestanome e sulle strategie per dissimulare al meglio la dimensione ‘ndranghetistica delle stesse imprese. Ogni colloquio tra il boss Farao  e i suoi familiari è permeato dalla rivendicazione da parte del detenuto del comando sulla cosca ma anche dalla preoccupazione di preservare i familiari da possibili catture, in modo da assicurare la continuità nella detenzione del potere. Ed è questo il motivo per cui il capo cosca insisteva affinchè i figli trovassero lavoro, un modo per sottrarli all’attenzione degli inquirenti, invitati ad assumere sempre un atteggiamento cauto, a non parlare esplicitamente al telefono o all’interno delle automobili, per evitare di essere intercettati.

Lo stile di vita consigliato dal boss. Sono tanti i colloqui nei quali il capo dispone che figli e nipoti dovevano limitarsi a lavorare, impegnandosi in attività imprenditoriali, evitando di commettere reati mediante uso di minaccia, tipici di una tradizionale organizzazione di ‘ndrangheta, ormai superata. Le azioni violente che in passato gli stessi padri avevano commesso per essere rispettati sul territorio non erano più necessarie: la nuova generazione doveva essere diversa, potendo beneficiare del lavoro “sporco” affidato ad altri e mostrando il volto pulito di giovani onesti imprenditori. Lo stile di vita consigliato da Farao, era quello di intervenire senza l’uso della prepotenza, evitando anche le cattive compagnie per non dare nell’occhio. Un sistema ben congeniato: gli appartenenti alla famiglia di sangue dovevano rimanere puliti, avere un lavoro dipendente oppure autonomo, “ormai i tempi sono cambiati, …devono andare gli altri per voi, perciò quando c’è qualcosa, venite qua e gli ordini li dò io e basta”,   a tutto il resto ci avrebbero pensato gli altri appartenenti alla cosca, deputati a reggere il clan facendo le veci dei reggenti detenuti. Farao consigliava ai congiunti di coltivare i rapporti con esponenti di altre ‘ndrine, in particolare con quella di Corigliano Calabro, con cui era necessario mantenere l’amicizia dando precise indicazioni sui buoni rapporti da tenere con le famiglie Marinaro di Corigliano e Trapasso di Cutro, che controllava il territorio di Cropani, raccomandando di adottare le cautele necessarie per non farsi notare dalle Forze dell’ordine.

I consigli. Altre direttive riguardavano la gestione di un credito di natura estorsiva o usuraia con l’imprenditore Nicola Flotta, proprietario di una struttura ricettiva a Mandatoriccio, denominata “Castello Flotta”. Giuseppe Farao, 37 enne comunicava allo zio detenuto di aver pressato Flotta per avere denaro “gli ho detto che i due anni sono passati” e il boss affermava però che non sarebbe stato conveniente insistere su Flotta, il quale, in passato aveva organizzato gratuitamente nella sua struttura la cerimonia matrimoniale di molti accoscati “perché se noi facciamo il conto di tutti i matrimoni, se avessimo dovuto pagare…gli devi dire che ti ho mandato tanti saluti e basta, però non forziamo perché… quando si tira la corda poi si spezza, l’arroganza mettetevelo in testa che non serve”.

Ulteriori conversazioni riguardano le infiltrazioni nelle amministrazioni: Farao dal carcere dimostrava di essere al corrente persino di quanti consensi elettorali avesse ricevuto Giuseppe Berardi, indicato come “Giuseppe nostro”, al quale sarebbe stata affidata la delega di assessore ai lavori pubblici nell’ambito delle elezioni di Cirò. Significativo anche il riferimento al denaro necessario per l’assistenza giudiziaria di Berardi. Giuseppe Farao chiede ad una persona coperta da omissis se “la parte di Giuseppe l’hai cacciata… No perché rimane!! .. Al comune gli hanno dato l’incarico…!!! A Cirò l’hanno messo sotto inchiesta per mafia! L’hai saputo?”. Il detenuto Giuseppe Farao attingeva dalla moglie informazioni anche sul fratello Silvio all’epoca latitante e una volta intuito che si stava in quel periodo rifugiando nella città di Cirò, non mancava di dispensare consigli ai familiari… “Statevi attenti che… prendono tutti quanti!!! Non li sentite i telegiornali?”. Tra i tanti colloqui carcerari intercettati c’è quello tra il boss  e suo figlio Vittorio. L’oggetto è una somma di denaro che doveva essere richiesta a titolo estorsivo ad un imprenditore edile locale. Giuseppe Farao “consigliava”  al figlio di pretendere il versamento di una parte dei proventi dell’attività dell’impresa edile, 5-6mila euro, utilizzando quale pretesto il proprio bisogno di pagare le cure odontoiatriche cui si sarebbe dovuto sottoporre. E la raccomandazione era chiara. Bisognava investire del problema Vito Castellano, detto “Ciccio”, il quale avrebbe dovuto pretendere il denaro da consegnare poi alla loro famiglia, perché le mani figli e nipoti non se le dovevano sporcare mai.

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CSPS Don Caporale e Liberamente Calabria: “Ecco come scongiurare la ‘ndrangheta”

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“L’emergenza sanitaria che sta mettendo in ginocchio il Paese si è già trasformata in pericoloso allarme sociale che rischia di degenerare in maniera drammatica, soprattutto per le fasce più deboli della società. Il numero delle persone affette da Coronavirus che non ce la fanno a sopravvivere aumenta di giorno in giorno, come quello delle famiglie messe in ginocchio dal blocco delle attività: piccole aziende, commercianti, artigiani, è il popolo delle Partite iva, ma anche i lavoratori precari, stagionali, e pure in nero magari unico reddito per nuclei consistenti. E’ il momento del dolore e del timore, non solo per le strutture sanitarie al collasso ma per quello che verrà quando si tratterà di ripartire e davanti avremo solo macerie economiche e sociali”. E’ quanto affermano Antonio Torchia, Paolo Petrolo, Alberto Tiriolo del Centro Studi Politico-sociali “Don Francesco Caporale” e  Carlo Piroso dell’associazione “Liberamente Calabria”.

 Piano strategico. “Serve un piano ragionato per capire quando, cosa e come riaprire. E dice bene il Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il rischio concreto in questo momento è l’usura: le famiglie hanno bisogno di mangiare, gli imprenditori avranno bisogno di  liquidità, per cui il rischio che la criminalità organizzata possa inserirsi in questo contesto di povertà è più che reale –scrivono ancora Torchia, Petrolo, Tiriolo e Piroso -. Nella nostra regione la debolezza intrinseca del sistema economico fa il paio con la presenza importante e soffocante della ‘ndrangheta che di questa crisi può, perciò, trarre immediato giovamento, offrendo denaro a strozzo e raccogliendo manovalanza esasperata, vista anche la presenza ininfluente delle banche nel nostro sistema economico regionale. Servono, quindi, misure tangibili e immediate. Quali? Vista la disponibilità della UE a non rispettare il patto di stabilità, consentendo agli stati di pompare risorse per mantenere i livelli di sicurezza sociale, la Regione Calabria ed il suo assessore alle Attività Produttive e lavoro potrebbe partire da un censimento delle piccole e micro aziende per dare un fido opelegis per la liquidità immediata da restituire alla fine dell’intervento in dieci anni senza segnalazione su CRIF accogliendo l’invito delle associazioni di categoria sui potenziali default di fine mese, dove le partite in garanzia dei piccoli commercianti ed artigiani potrebbero facilmente saltare. Attraverso un rapidissimo restyling, potrebbero essere messi a disposizione i bandi a sostegno dell’agricoltura/turismo e artigianato. Vanno riaperti i cantieri che sono fermi per la spendingreview, così come va chiesto allo Stato lo sblocco delle risorse di sponda”. Il Centro Studi Politico Sociale “Don Francesco caporale” e l’Associazione Liberamente Calabria propongono, inoltre di: avviare fin dove possibile un privilegio territoriale per le gare da indire, con una riserva di almeno il 50% dei bandi; riconvertire il Por in utilizzo immediato su progetti per esempio da definire con le associazioni di categoria; aprire un fondo immediato all’assistenza sia delle famiglie bisognose e sia con a carico persone disagiate; aprire una grande zona franca con una flattax al 15% e concedere un anno di fisco bianco.

“Solo in questo modo – concludono Torchia, Petrolo, Tiriolo e Piroso – possiamo dare un senso alla parola Stato e riempirne di contenuti la sua essenza”.

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Coronavirus, Lombardo: “‘Ndrangheta farà imponenti operazioni finanziarie”

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Alla fine della pandemia ci sarà “la più imponente operazione di ‘doping finanziario’, generata da capitali mafiosi, che la storia recente ricordi”. È quanto afferma il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, che, sull’edizione odierna de “Il Fatto Quotidiano” oggi in edicola, spiega fase per fase quali saranno le mosse della ‘ndrangheta una volta che l’emergenza sanitaria sarà conclusa. In questo momento, scrive Lombardo, la criminalità organizzata è in una fase “conservativa”: “Si limita a osservare l’andamento dell’epidemia, evitando iniziative palesi che possano inasprire tensioni sociali che possano far deflagrare contesti territoriali instabili, in cui marginalità e sottosviluppo sono ben più risalenti rispetto alla attuale fase di emergenza epidemiologica. Verrà privilegiata una strategia conservativa, di ‘operosità silente’, mirata a mantenere inalterata la collocazione della struttura nel complessivo scacchiere criminale”.

La ‘ndrangheta incaricherà analisti finanziari. Dopo arriverà però il momento di agire e di sfruttare la grave crisi economica in cui si troverà l’Italia ma non solo: “Sarà quella la fase in cui gli analisti, incaricati dalle grandi organizzazioni criminali, saranno chiamati a individuare i settori produttivi più appetibili, in cui immettere gli enormi capitali sporchi di cui il complessivo sistema mafioso dispone”. Secondo Lombardo si tratterà di un movimento di capitali mai visto, sarà “la più imponente operazione di ‘doping finanziario’, generata da capitali mafiosi, che la storia recente ricordi”.

A livello locale il problema sarà l’usura. La base dell’organizzazione criminale, nel frattempo, offrirà il proprio “sostegno” a famiglie e imprese in difficoltà, soprattutto nelle zone – come la Calabria – dove la crisi si farà sentire maggiormente. Lombardo però avverte: “L’usura continuerà a esistere solo quale reato tipico delle manifestazioni criminali meno ramificate ed evolute. L’alta mafia, invece, adotterà strategie orientate a perseguire due obiettivi principali: il primo, di breve periodo, sarà finalizzato a garantire forme di sopravvivenza a quelle categorie che non hanno altri paracaduti finanziari (penso alle larghe fasce di economia sommersa, irregolare o priva di garanzie)”.

Sistema bancario “parallelo”. Il secondo sarà invece quello di “consolidare, in una fase di scarsissima liquidità globale, il loro ruolo di componenti indispensabili del sistema economico e finanziario mondiale”. Il pericolo è infatti che la ‘ndrangheta dia vita al progetto “mai abbandonato” di creare un “sistema bancario parallelo a quello legale”, così da fornire liquidità “non più direttamente al piccolo imprenditore, che ne ha urgente bisogno, ma al più ampio sistema finanziario che canalizza le risorse verso la grande impresa”. Un sistema economico di grande dimensione, quindi, che permetterà alla criminalità organizzata di arrivare nelle gestione dei servizi essenziali ancor più di quanto sia riuscita a fare finora.

Necessario intervento legislativo. “Sarà indispensabile – conclude il procuratore della Dda di Reggio Calabria – impedire che questo accada, adottando strumenti normativi evoluti, anche mediante interventi di riforma della legislazione antimafia diretti ad attualizzare gli strumenti di contrasto di tipo sostanziale e processuale, che possano consentire la protezione dell’economia legale e agevolare non solo la fase giudiziaria in senso stretto ma anche, e soprattutto, quella di analisi pre-investigativa, fondamentale per individuare senza ritardi le tendenze evolutive dei fenomeni criminali di tipo mafioso del Terzo millennio”

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Buoni spesa, a Cirò e Strongoli avanti le famiglie dei detenuti. Il caso in Prefettura

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Se la commissione straordinaria del Comune di Africo, esclude dai buoni spesa, per l’emergenza da Covid-19, coloro che hanno subito condanne definitive per associazione mafiosa o reati con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa o con carichi pendenti per gli stessi reati, l’hanno pensata diversamente altre Amministrazioni comunali, seppur commissariate. E’ il caso dei comuni di Cirò Marina e Strongoli, che nell’erogazione dei buoni spesa una tantum, tra i beneficiari, nella voce “criteri di formulazione della graduatoria” include anche le famiglie dei detenuti.

Il paradosso. Ora non per mettere in discussione il principio secondo il quale “la legge è uguale per tutti”, carcerati e non, condannati o meno, qualunque sia il reato contestato, ma non sarebbe stato sufficiente includere semplicemente le famiglie a basso reddito, o disagiate o in stato di indigenza, anziché dover necessariamente specificare “detenuti”? Come se si potesse ottenere una corsia preferenziale per i buoni spesa solo perché si fa parte di un nucleo familiare, dove alcuni componenti si trovano in carcere, con il rischio che il bonus non basti per coloro che non hanno familiari dietro le sbarre.

I faccendieri che fanno valere le proprie liste. “Il requisito essenziale di accesso è rappresentato da tutti i redditi ed emolumenti, a qualsiasi titolo, percepiti nell’arco dell’ultimo anno, obbligatoriamente autocertificati dal richiedente”, si legge nella domanda per ottenere i buoni spesa nei Comuni di Cirò Marina e Strongoli.  Viene da chiedersi, a parità di reddito tra due nuclei familiari, chi viene preferito? Chi ha il detenuto in carcere?  In un momento storico in cui il Governo italiano si attiva per adottare  misure straordinarie e urgenti per fronteggiare l’emergenza alimentare della popolazione italiana colpita e decimata dal Covid 19 destinando  dei fondi  per alleviare bisogni e necessità,  non a caso il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri recentemente ha dichiarato di prestare attenzione alle graduatorie e che le misure a sostegno delle persone povere, quindi i fondi alimentari dovrebbero essere cedute dai sindaci alle Forze dell’ordine, per non correre il rischio che qualche primo cittadino faccendiere o ‘ndranghetista “possa far prevalere la sua lista di poveri rispetto a quella reale”.

E i calabresi onesti? La componente della Commissione nazionale Antimafia Margherita Corrado ha segnalato i due casi del Crotonese al Ministero dell’interno e alla prefettura di Crotone perché si faccia chiarezza, con una domanda che fa riflettere: “Cosa penseranno, i tanti calabresi onesti che il virus (o l’opportunismo di certi “imprenditori”) ha privato del lavoro- ha detto la senatrice- a vedersi scavalcati in elenco dai familiari di un boss di ‘ndrangheta, privilegiati per il solo fatto di poter “vantare” un congiunto al 41 bis?”.

 

 

 

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La ‘ndrangheta non soffre il lockdown. Occhi puntati sul mercato nero

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“La lunga crisi economica e sociale e la stessa emergenza sanitaria del Coronavirus, per le mafie  non sono altro che un’opportunità di nuovi guadagni, perché qualunque business attira la loro attenzione, tanto che ora noi dobbiamo fare molta attenzione e puntare il nostro focus investigativo anche sul mercato nero dei presidi sanitari”, come mascherine e gel disinfettanti. Come riporta l’Ansa, il procuratore aggiunto della Dea di Milano Alessandra Dolci,  spiega come la ‘ndrangheta e le altre organizzazioni criminali puntino a sfruttare anche questa terribile pandemia . “Nei giorni in cui nella metropoli e in tutta la Lombardia sono ferme anche molte imprese e altre attività apparentemente legali ma nelle mani delle cosche, le mafie, chiarisce il capo della Dda milanese, continuano, comunque, ad avere una grande liquidita’ a disposizione e prova ne sia il fatto che solo pochi giorni fa nella piana di Gioia Tauro sono stati sequestrati oltre 500 kg di cocaina. Non soffrono il “lockdown”, anzi si stanno organizzando, spiega ancora Dolci, in vista dei futuri guadagni e puntano ai nuovi business” di questa fase di emergenza, “perche’ sono assolutamente in grado di entrarci”.

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I parlamentari della Lega: “Ai domiciliari il boss Iannazzo, indulto mascherato”

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“Con la scusa del rischio contagio, un pericoloso boss calabrese come Vincenzino Iannazzo va ai domiciliari perché gli hanno riscontrato un deficit immunitario. Il tutto mentre la maggioranza insiste per realizzare un indulto mascherato, come premio dopo decine di rivolte nelle carceri italiane. Col pretesto del virus, stiamo assistendo a una serie di drammatiche sconfitte dello Stato”. Lo hanno affermato i parlamentari della Lega in commissione Antimafia: Gianluca Cantalamessa, Andrea Dara, Michelina Lunesu, Enrico Montani, Luca Rodolfo Paolini, Pasquale Pepe, Erik Pretto, Gianni Tonelli, Francesco Urraro.

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‘Ndrangheta nel Crotonese, il pentito Mannolo e gli affari su turismo e politica

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Dal suo “battesimo” ai supervisori della ‘ndrangheta di Crotone e Catanzaro, ai “cinque notabili”, agli affari nei villaggi turistici, il pentito Dante Mannolo, coinvolto nella duplice inchiesta Malapianta e Infectio, dal carcere di Rebibbia, svuota il sacco davanti ai sostituti procuratori antimafia Domenico Guarascio e Paolo Sirleo. Nei verbali di interrogatorio del 23 luglio, del primo agosto e del 14 novembre 2019, allegati all’avviso di conclusione indagine con cui i pm della Dda hanno chiuso, quasi due mesi fa, il cerchio nei confronti di 96 indagati, il collaboratore di giustizia riferisce di essere stato battezzato circa 10 anni fa, contestualmente ad una sorta di riforma all’interno delle famiglie di San Leonardo di Cutro: Mannolo, Trapasso, Zoffreo e Falcone. Prima del 2009, era il padre di Dante Mannolo il capo della società di San Leonardo, mentre Carmine Falcone, Carmine Zoffreo e Giovanni Trapasso erano nella “maggiore”. La ‘ndrangheta ha una casa madre, (penso San Luca, afferma il pentito ndr), che ha preposto 5 responsabili su Crotone-Catanzaro: Nicola Grande Aracri, Cataldo Marincola, Mico Megna, Nicola Arena, di 83 anni e Giovanni Trapasso, i “supervisori della ‘ndrangheta di Crotone e Catanzaro”. Ciascuno, con una zona di influenza, una propria autonomia e una porzione di territorio, “rispondevano a Cirò dove era localizzato il Crimine, che aveva il compito di dirimere conflitti e questioni.

I battezzati. I cinque notabili si erano divisi il territorio, gli Arena avevano influenza su Catanzaro, anche se poi quelli della Montagna (Mesoraca e altri locali) hanno preso piede. “La riforma è stata formalizzata in una riunione a San Leonardo a casa di mio zio Leonardo, deceduto, che fece il rito e ciascuno di noi picciotti demmo la mano e baciammo su una guancia i quattro di famiglia. Il rito durò circa due ore. Avvenne circa nell’anno 2009 in una giornata di domenica. Ciascuna delle 4 famiglie curava i propri interessi in maniera indipendente e aveva un proprio territorio. Se io volevo fare un affare a Cropani, dovevo chiedere il permesso ai Trapasso”.

Gli affari sul villaggio Porto Kaleo. Poi va avanti riferendo gli affari di famiglia nel villaggio turistico Porto Kaleo. “Il condominio è gestito dalla moglie dell’avvocato Grande Aracri e la famiglia Trapasso prende lo stipendio. Nel villaggio mio zio Leonardo e poi mio zio Mario percepivano uno stipendio di 2mila euro. Tra il villaggio Porto kaleo e il residence c’è un terreno che recentemente è stato acquisito dall’avvocato Grande Aracri tramite un prestanome e l’acquisto, effettuato all’asta di Crotone, un’asta pilotata, è stato finanziato dalle 4 famiglie di San Leonardo e dalla famiglia Grande Aracri, pagando circa 200mila euro. L’investimento era finalizzato alla costruzione di un villaggio. Ricordo che ogni famiglia ha immesso circa 50, 60 mila euro e furono erogati da mio padre, a cui furono date le quote di ciascuno di noi”. Per quanto riguarda il villaggio Serenè, il collaboratore di giustizia dichiara ai pm, che ci fu un’imposizione dei Grande Aracri per i fornitori di prodotti alimentari, a cui subentrò Vincenzo Caterisano, mentre il pentito, a suo dire, non avrebbe mai costretto alcuno dei titolari dei villaggi a prendere la fornitura del caffè da lui, offrendo solo un servizio, rifornendo il Santa Monica, il Serenè e Porto Kaleo, pur ammettendo i vantaggi avuti per il solo fatto di essere il figlio di Alfonso Mannolo. Suo fratello Remo, anche lui battezzato al locale di San Leonardo lavorava da circa 20 anni nel villaggio turistico Porto Kaleo. “So che a Natale e a Pasqua, mio padre ed altri maggiorenni della locale lo mandavano in rappresentanza da altre consorterie del Crotonese, (a Roccabernarda dai Bagnato, a Cirò Marina da Morrone, a Papanice da Mico Megna, a Strongoli da Salvatore Giglio, a Isola dai Nicoscia, alterando gli Arena, a Cutro dai Grande Aracri) per cambiare regali, generalmente prodotti alimentari e fare doveri in denaro….”

Le Poste private a Botricello. Il pentito riferisce che suo padre dirige attività usuraie, soffermandosi sulla gestione occulta delle Poste Private a Botricello: “Io l’ho saputa recentemente, allorquando mio padre ci rapportò dei problemi di mia cugina Daniela Mannolo. Da lì, io e mio fratello abbiamo compreso che mio padre aveva investito circa 15mila euro in questa attività ed era arrabbiato perché gli mancavano i soldi e addebitava la mancanza alla nipote”.

‘Ndrangheta e politica. Per quanto riguarda i rapporti con l’Amministrazione comunale di Cutro, il collaboratore di giustizia ha dichiarato che negli ultimi 20 anni i capi della 4 famiglie di San Leonardo hanno sostanzialmente deciso l’elezione del sindaco e dei componenti la Giunta comunale, “considerate che la frazione di San Leonardo è popolosa e dispone di circa 500 voti, costituendo l’ago della bilancia in ogni elezione. Per ogni elezione, preceduta da accordi tra i candidati e i maggiorenni della consorteria, si è decisa la votazione in massa per il candidato prescelto, nel senso che mio padre, Trapasso, Falcone e Zoffreo, ci indicavano chi votare. A San Leonardo si è sempre votato in questo modo. Del resto la mia affermazione è verificabile dai conteggi elettorali della mia frazione che ha sempre votato in massa”.

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Omicidio Vangeli, la Dda chiude il cerchio: 5 indagati. C’è anche l’ex fidanzata

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Attirato in un tranello, ferito mortalmente con un colpo di fucile, chiuso in un sacco di plastica e ancora agonizzante gettato nel fiume Mesima. La Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha chiuso l’inchiesta sull’atroce omicidio di Francesco Vangeli, il giovane di Filandari, vittima di lupara bianca, il cui corpo non è ancora stato ritrovato. Malgrado ciò, le indagini, coordinate dal sostituto procuratore antimafia Annamaria Frustaci e Antonio De Bernardo con la supervisione del procuratore capo Nicola Gratteri e condotte sul campo del Carabinieri del Norm della Compagnia di Vibo guidati dal tenente Luca Domizi, sono arrivate ad un punto di svolta individuando i presunti esecutori materiali del delitto e il movente che avrebbe portato all’omicidio.

I nomi. Nell’avviso di conclusione indagini compaiono oltre ai fratelli Antonio e Giuseppe Prostamo, rispettivamente 31 e 35 anni, ritenuti esponenti di spicco dell’omonima “famiglia” di ‘ndrangheta gravitante a San Giovanni di Mileto, anche l’ex fidanzata di Vangeli, Alessia Pesce, 21 anni di Filandari ma residente a San Giovanni di Mileto; i due amici della vittima Alessio Porretta, 24 anni di Filandari, e Fausto Signoretta, 29 anni di Ionadi.

Ucciso dai Prostamo. Ad uccidere Vangeli sarebbero stati – secondo l’ipotesi accusatoria – i due fratelli di San Giovanni di Mileto che avrebbero agito in concorso con altre due persone ancora in fase di identificazione. Sono accusati, a vario titolo, di una sfilza di reati tutti aggravati dal metodo mafioso: omicidio, distruzione e soppressione di cadavere oltre a minaccia e detenzione di arma clandestina. I fatti si sono consumati tra il pomeriggio e la sera del 9 ottobre 2018. Vangeli è stato attirato con un pretesto nella casa di Antonio e Giuseppe Prostamo a San Giovanni di Mileto. E’ qui che il giovane di Filandari sarebbe stato ferito dal colpo di fucile, rinchiuso in un sacco nero di plastica e ancora moribondo trasportato a bordo della sua auto nei pressi del fiume Mesima dove, moribondo, è stato gettato. Quindi i suoi presunti assassini hanno bruciato la macchina nel tentativo di cancellare quante più tracce possibili.

Il ruolo dell’ex fidanzata. Tra gli indagati figura pure Alessia Pesce, la giovane donna contesa da Antonio Prostamo e Francesco Vangeli. Uno dei moventi dell’omicidio, probabilmente in principale, sarebbe proprio questo. La ventunenne che oggi vive a San Giovanni di Mileto è accusata di aver reso delle false dichiarazioni al pubblico ministero nel tentativo di depistare le indagini. La Pesce sarebbe stata anche brutalmente percossa da Antonio Prostamo che per questo motivo è accusato anche di maltrattamenti in famiglia.

Tradito dagli amici. Un ruolo fondamentale in questa vicenda lo avrebbero rivestito due “amici” di Vangeli: Alessio Porretta e Fausto Signoretta, entrambi accusati di favoreggiamento aggravato dal metodo mafioso. Il primo avrebbe accompagnato la vittima a San Giovanni di Mileto a bordo della Ford Fiesta poi data alle fiamme. Secondo le indagini, prima di arrivare a destinazione, i due si sarebbero fermati a Nao (frazione di Ionadi) per informare Fausto Signoretta e chiedere di interessarsi alla vicenda per trovare una soluzione nei contrasti esistenti tra i Prostamo e Francesco Vangeli “anche in virtù – sottolineano gli inquirenti – della sua vicinanza ai Mancuso”. Signoretta ha infatti tenuto a battesimo la figlia di Giuseppe Mancuso, quest’ultimo figlio di Giovanni. Una mediazione fallita perché – da quanto emerge dall’inchiesta – Signoretta veniva costretto in malo modo dai Prostamo ad allontanarsi dalla loro abitazione mentre Porretta sarebbe stato riaccompagnato a casa lasciando da solo al proprio destino il povero Vangeli.

Il collegio difensivo. I cinque indagati sono difesi dagli avvocati Sergio Rotundo, Giovanni Vecchio, Giuseppe Grande, Tommaso Zavaglia, Giovambattista Puteri.

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E’ a rischio Coronavirus, passa ai domiciliari boss di Melicucco

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La Corte d’appello di Reggio Calabria, su richiesta degli avvocati Guido Contestabile e Angelo Sorace, ha concesso gli arresti domiciliari per motivi di salute al presunto boss della ‘ndrangheta di Melicucco, centro della Piana di Gioia Tauro, Rocco Santo Filippone, 72 anni. Filippone, uomo di fiducia del clan Piromalli, è imputato in Corte d’Assise nel processo “’Ndrangheta stragista”, con l’ex capo mandamento di Brancaccio di Palermo Giuseppe Graviano, a seguito di una indagine sui rapporti ‘Ndrangheta-Cosa Nostra’ nella strategia stragista dei primi anni ’90 coordinata dal procuratore aggiunto della Dda reggina Giuseppe Lombardo. Il provvedimento, che sarà in vigore fino al persistere dell’emergenza da Coronavirus – fanno sapere i legali – si è reso necessario per le “condizioni particolarmente a rischio” del loro assistito che risulta affetto da patologie cardio-vascolari gravi, come attestato anche dai sanitari del carcere torinese delle ‘Vallette’ dove Filippone era”

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Concorso esterno in associazione mafiosa, chiesto il processo dell’ex senatore Fuda

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La Procura distrettuale di Reggio Calabria retta da Giovanni Bombardieri ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex sindaco di Siderno Pietro Fuda, ex senatore, già assessore regionale e presidente della Provincia di Reggio Calabria. Fuda il 15 giugno prossimo, giorno in cui il gup ha fissato l’udienza preliminare di dovrà difendere dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Per la Dda è appartenente ad una struttura massonica collegata alla ‘ndrangheta. E’ stata sindaco di Siderno nel 2015, comune sciolto nel 2018 per presunti condizionamenti mafiosi.

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Processo alla cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri di Lamezia, chieste 10 condanne

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Una sola richiesta di assoluzione e 10 condanne, per pene dai 2 ai 14 anni di reclusione sono stati invocati dal pm della distrettuale di Catanzaro Andrea Giuseppe Buzzelli per gli 11 imputati coinvolti nell’operazione antimafia Crisalide 1, che ha portato a maggio del 2017 ad un decreto di fermo emesso dalla Dda nei confronti di 52 affiliati alla cosca di ‘ndrangheta “Cerra – Torcasio – Gualtieri” attiva nella piana di Lamezia, ritenuti responsabili di associazione di tipo mafioso, traffico illecito di sostanze stupefacenti, possesso illegale di armi ed esplosivi, estorsione, danneggiamento aggravato, rapina. Tra gli imputati c’è anche l’ex vice presidente del Consiglio comunale di Lamezia Terme Giuseppe Paladino.  La sentenza per coloro che hanno scelto il rito abbreviato è, invece, arrivata a maggio 2019 con 9 assoluzioni e 43 condanne.

Le richieste di pena.   Il pubblico ministero ha invocato davanti ai giudici del Tribunale collegiale di Catanzaro, presieduto da Luca Nania, per Francesca Antonia De Biase 3 anni di reclusione; Danilo Fiumara 14 anni; Flavio Bevilacqua 13 anni; Antonio Torcasio 3 anni e 7.500 euro di multa; Alex Morelli 2 anni, sei mesi e 600 euro di multa; Vincenzo Stranges 3 anni e 7.500 euro di multa; Alfonso Calfa 2 anni, sei mesi e 6mila euro di multa; Giuseppe Costanzo 13 anni; Piero De Sarro 13 anni e per Paladino 6 anni e 8 mesi, per un totale di oltre 67 anni di carcere.

La richiesta di assoluzione  Il pubblico ministero ha chiesto anche l’assoluzione per Ivan Di Cello e l’assoluzione per il  solo reato di associazione finalizzata al narcotraffico per De Biase, Strangis, Torcasio e Calfa e per il solo reato di corruzione elettorale per Paladino. I giudici del collegio hanno aggiornato l’udienza al prossimo 5 maggio, giorno in cui inizieranno le discussioni dei legali Lucio Canzoniere, Salvatore Cerra, Antonio Larussa, Giuseppe Di Renzo, Aldo Ferraro, Tiziana d’Agosto e Diego Brancia. (g. p.)

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Rinascita Scott, blitz dei carabinieri a San Gregorio: catturato il latitante Giofrè (VIDEO)

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Nella notte, i Carabinieri del Ros, del Comando Provinciale di Vibo Valentia e dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Calabria, coordinati dalla Procura distrettuale antimafia di Catanzaro, a seguito di un intervento eseguito in un’abitazione rurale nelle campagne di contrada Batia, di San Gregorio d’Ippona, nel Vibonese, hanno arrestato il latitante Gregorio Giofrè, classe 1963, di San Gregorio d’Ippona. I militari dell’Arma lo hanno scovato all’interno di una casa di proprietà di un soggetto ritenuto vicino alla cosca e il perimetro dell’abitazione era munito di un complesso dispositivo di video-sorveglianza.




Ai vertici del locale di San Gregorio. Giofrè, ritenuto esponente di spicco della cosca Fiarè-Razionale-Gasparro, (seconda per potenza criminale solo ai Mancuso in provincia di Vibo Valentia) era ricercato dal 19 dicembre 2019, a seguito dell’ordinanza cautelare emessa dal gip di Catanzaro, nell’ambito dell’operazione Rinascita-Scott, condotta dal Ros e dal Comando provinciale Carabinieri di Vibo Valentia e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che ha coinvolto le maggiori cosche di ‘ndrangheta del Vibonese. Secondo le indagini che hanno portato al provvedimento custodiale nei confronti di 334 soggetti, responsabili, a vario titolo, di associazione mafiosa, omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione, riciclaggio ed altri gravi reati, Gregorio Giofrè sarebbe un’esponente apicale della locale di San Gregorio d’Ippona, imparentato con Rosario Fiarè, storico capo locale, attualmente in regime di detenzione domiciliare.  Dopo la cattura di Saverio Razionale e Gregorio Gasparro, avvenuta lo scorso 19 dicembre 2019, era rimasto il più importante esponente della struttura mafiosa in libertà. La locale di San Gregorio d’Ippona, sin dagli anni ’80, è stata fedele ai Mancuso di Limbadi ed i suoi più influenti appartenenti sono stati centrali per consentire ai Mancuso stessi la gestione unitaria della ‘ndrangheta vibonese.

Le accuse dei pentiti.  Secondo l’ipotesi accusatoria, avvalorata anche dalle dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia, Gregorio Giofrè, indagato per associazione mafiosa ed una serie di condotte estorsive, aggravate dal metodo mafioso, aveva il compito organizzare la riscossione delle estorsioni agli imprenditori secondo un sistema centralizzato, valido per tutta la provincia, che consentiva alla cosca di competenza l’ottenimento della “messa a posto”, normalmente ammontante al 3% del valore dei lavori, con il conseguente “fiore” non solo per la locale competente nel luogo in cui il lavoro veniva eseguito, ma anche per quella di competenza del luogo di provenienza dell’imprenditore, secondo dinamiche che consentivano l’alimentazione di una bacinella comune. Giofrè costituiva, nel settore, anche il punto di riferimento ultimo per le interlocuzioni con esponenti delle cosche della ‘ndrangheta di diverse province che conoscevano il suo ruolo e gestivano l’azione estorsiva secondo un modello che conferma l’unitarietà dell’organizzazione mafiosa calabrese, non solo dal punto di vista formale ma anche sostanziale.

La cattura e il silenzio di Gregorio Giofrè, il “ministro” della ‘ndrangheta vibonese

 

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