Interrogatorio di garanzia per l’ex sottosegretario che ha risposto alle domande del giudice. Il suo legale, Franco Sammarco, ha depositato un’istanza di scarcerazione
Al via questa mattina gli interrogatori di garanzia per Sandro Principe, Pietro Ruffolo, Giuseppe Gagliardi, Umberto Bernaudo e Rosario Mirabelli accusati, nell’ambito dell’operazione denominata “Sistema”, di concorso esterno in associazione mafiosa e di aver ricevuto il sostegno elettorale del clan Lanzino. Gli indagati sono stati sentiti dal gip distrettuale di Catanzaro, Carlo Saverio Ferraro, assistiti dai rispettivi avvocati difensori alla presenza del pm Pierpaolo Bruni. Intanto, l’avvocato di Sandro Principe, Franco Sammarco, ha fatto sapere di aver depositato un’istanza di riforma della misura custodiale dinanzi al Tribunale del Riesame. Principe è accusato di corruzione elettorale e concorso esterno in associazione mafiosa.
Le dichiarazioni dell’avvocato di Principe. “È andata bene – ha dichiarato ai cronisti il legale al termine di un interrogatorio di oltre tre ore – ma credo che se la Procura distrettuale intende proseguire e perseguire eventuali aggressioni della criminalità organizzata nella pubblica amministrazione con i postulati che oggi rivolgono a Sandro Principe sarà ben difficile ottenere risultati. Il problema, mi pare, è che non ci sono accuse e tutto sia caratterizzato da un vuoto sia da un punto di vista della ricostruzione fattuale sia dal punto di vista argomentativo. A me pare evidente che si tratta di ordinanze poggiate su postulati paragiudiziari”.
“Nessuna intercettazione”. “Non c’è nessuna intercettazione che riguardi l’onerevole Principe, né incontri contestati tra il mio assistito e chicchessia, né fatti attribuibili all’onorevole Principe. Se poi i processi si basano su presupposti che riguardano il modo in cui si esercita la leadership rispetto ad una formazione politica o rispetto ad una vicenda amministrativa, si può anche dire che chiunque transitasse da Rende non poteva farlo se non attraverso il beneplacito dell’onorevole Principe. Ma mi pare che dal punto di vista giuridico siamo al di là del consentito”.
Operazioni clamorose. “Non sono per nulla fiducioso, spero di essere attento alle vicende. Ho fiducia che una verifica dibattimentale potrà chiaramente rappresentare un momento dialettico importante. Ci auguriamo che lo si possa fare in termini di civiltà giuridica. Se poi abbiamo necessità di fare operazioni clamorose attraverso arresti va bene così. Vedremo cosa ne penserà il Tribunale del Riesame qualora il giudice dovesse ritenere di non revocare la misura”. Sono invece ancora in corso gli interrogatori di garanzia per gli altri politici arrestati. (Cz1)
GUARDA LA VIDEO-INTERVISTA ALL’AVVOCATO FRANCO SAMMARCO
Oltre a Principe, davanti al gip sono comparsi anche l’ex sindaco di Rende Bernaudo, l’ex consigliere regionale Mirabelli, l’ex consigliere provinciale Ruffolo, l’ex consigliere comunale Gagliardi
Hanno tutti risposto alle domande del gip distrettuale di Catanzaro e tutti hanno respinto le accuse mosse nei loro confronti dal pm Pier Paolo Bruni. Quella di ieri è stata la giornata degli interrogatori di garanzia per i cinque politici finiti nel calderone dell’inchiesta denominata “Sistema” Rende e accusati di aver ottenuto l’appoggio elettorale della cosca Lanzino-Ruà di Cosenza in alcune competizioni elettorali.
Accuse respinte. Il primo a presentarsi davanti al gip Carlo Saverio Ferraro è stato proprio Sandro Principe, interrogato per tre lunghissime ore alla presenza del suo avvocato Franco Sammarco (LEGGI QUI). Davanti al giudice delle indagini preliminari sono comparsi anche gli altri quattro politici indagati: l’ex sindaco di Rende Umberto Bernaudo (difeso dall’avocato Francesco Calabrò), l’ex consigliere provinciale Pietro Ruffolo (difeso dall’avvocato Franz Caruso), l’ex consigliere comunale di Rende Giuseppe Gagliardi (difeso dall’avvocato Franco Sammarco) e l’ex consigliere regionale Rosario Mirabelli (difeso dall’avvocato Giancarlo Pittelli). Tutti hanno sostenuto e ribadito la loro totale estraneità ai fatti contestati. Ovviamente coperti dal segreto istruttorio i contenuti degli interrogatori che sono terminati nel tardo pomeriggio.
Parola al Tdl. Nelle prossime ore le posizioni degli indagati passeranno al vaglio del Tribunale del Riesame dove sono sono state depositate le richieste di scarcerazione.
Ripreso il dibattimento e revocata la precedente sospensione. Per il medico-legale, l’imputato ha solo un lieve deficit cognitivo. L’operazione è scattata ben 13 anni addietro
E’ stato il giorno dell’escussione in aula del professore Giulio Di Mizio, medico legale e perito che ha riferito al Tribunale collegiale di Vibo Valentia in ordine alla capacità di intendere e volere di Domenico Mancuso, 41 anni, figlio del boss della ‘ndrangheta Giuseppe Mancuso di Limbadi, e fra i principali imputati del processo nato dall’operazione “Dinasty-Affari di famiglia” scattata nell’ottobre del 2003. Sulla scorta di quanto spiegato in aula dal medico legale, il Tribunale ha revocato l’ordinanza di sospensione del processo per l’imputato ed è stato quindi dichiarato nuovamente aperto il dibattimento. Domenico Mancuso è così per il Tribunale di nuovo pienamente processabile. Il deficit cognitivo riscontrato dal medico-legale è di grado lieve e non incide pertanto sulla capacità di stare in giudizio, essendo venute meno le ragioni che avevano portato a sospendere nei suoi confronti il processo. Associazione mafiosa il reato contestato a Domenico Mancuso dalla Dda di Catanzaro (rappresentata oggi in aula dal pm Camillo Falvo).
Domenico Mancuso
Nonostante Domenico Mancuso (difeso dall’avvocato Milicia) venga indicato dalla Dda di Catanzaro come l’imputato principale del processo “Dinasty” – intercettato in particolare in carcere durante i colloqui con lo zio Diego Mancuso – , la sua posizione era stata stralciata dal procedimento principale a carico di tutti gli altri imputati (celebrato in primo grado dinanzi al Tribunale di Vibo Valentia all’epoca presieduto dal giudice Giancarlo Bianchi), poichè alcune perizie mediche ne attestavano l’incapacità processuale. (g.b.)
Il perito del Tribunale e quello della difesa in disaccordo sulle conclusioni in ordine al possibile “aggancio” del telefonino dell’imputato lungo l’autostrada
“Scontro” in aula fra periti nel processo in corso dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia che vede imputato Nunzio Manuel Callà – 30 anni, di Nicotera – del tentato omicidio ai danni di Francesco Scrugli, avvenuto nel febbraio del 2012 a Vibo Valentia. All’imputato viene contestato anche il porto abusivo dell’arma da guerra che sarebbe stata usata da alcuni sicari stranieri, assoldati dal clan Patania di Stefanaconi, per attentare alla vita di Francesco Scrugli, ritenuto elemento del clan dei “Piscopisani”. Le contestazioni nei confronti di Nunzio Manuel Callà, ritenuto invece vicino al boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni” (alleato dei Patania nella “guerra” contro i “Piscoopisani”) sono aggravate dalle finalità mafiose. Le divergenze fra il perito nominato dal Tribunale, Bruno Pellero, e quello della difesa dell’imputato, il professore Roberto Cusani ordinario dell’università “La Sapienza” di Roma, è emersa in particolare con riferimento all’esame dei tabulati telefonici di Callà e delle “celle di aggancio” del suo telefonino sul tratto autostradale ricompreso fra gli svincoli di Serre e Mileto.
Secondo l’accusa, Nunzio Manuel Callà avrebbe trasportato da Nicotera Marina l’arma che sarebbe stata poi utilizzata dai sicari stranieri assoldati dai Patania per sparare a Francesco Scrugli nel quartiere Sant’Aloe di Vibo Valentia a pochi metri dalla Questura. Il fucile di precisione, secondo la ricostruzione accusatoria confortata – ad avviso del peito Pellero – dalla compatibilità delle celle di aggancio del telefonino dell’imputato – difeso dagli avvocati Francesco Sabatino e Antonio Porcelli -, sarebbe stata poi ceduta a Nicola Figliuzzi nei pressi dello svincolo autostradale delle Serre e da questi portata ai killer stranieri per sparare a Scrugli. Le divergenze con il perito della difesa, Roberto Cusani, sono però emerse in particolare in ordine al percorso del viaggio di ritorno che avrebbe compiuto Callà per far rientro a Nicotera. Per il consulente della difesa, infatti, le “celle di aggancio” del suo telefonino sarebbero incompatibili con il percorso sull’A3 per come invece ipotizzato dalla Dda. Prossima udienza per la requisitoria del pm il 13 aprile. Quindi le discussioni dei difensori e la sentenza. (g.b.)
Il provvedimento adottato dal Tribunale di Reggio Calabria. Il ragazzo, figlio di esponenti di rilievo di una famiglia ‘ndranghetista, trasferito in una comunità
Il personale specializzato della Polizia di Stato ed operatori dell’Ufficio Servizio Sociale per i minori del Ministero della Giustizia hanno eseguito un provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale, trasferendo un minorenne, figlio di esponenti di rilievo di una famiglia ‘ndranghetista operante nel territorio della provincia di Reggio Calabria, in una struttura comunitaria ubicata al di fuori del territorio della Regione Calabria.
Il provvedimento La misura è stata adottata dal Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, su richiesta Procura, in ossequio ad una consolidata giurisprudenza che scaturisce dalla prioritaria esigenza di offrire al minore un modello educativo alternativo, diverso da quello fino al momento proposto dagli stretti familiari, ispirato ai sub-valori della cultura ‘ndranghetista.
L’obiettivo. La decisione del Tribunale si muove nell’ottica di tutelare il minore dal rischio concreto di esposizione a condotte devianti e a un futuro di sofferenza, in cui la carcerazione appare – nella migliore delle ipotesi – come un destino ineluttabile per lo stesso. Nella struttura comunitaria, ove è stato trasferito, il minore sarà affidato alle cure e alle attenzioni di operatori professionalmente qualificati a trattare problematiche simili a quelle riscontrate nel giovane.
Blitz anti-droga della Guardia di finanza. Colpito un sodalizio criminale operante su tutto il territorio nazionale che importava cocaina dal Sudamerica
Sequestrati beni per un milione di euro a un narcotrafficante. Questo il bilancio di un’operazione messa a segno dai militari del Gico del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Firenze.
Il provvedimento. La misura, emessa dal Tribunale di Reggio Calabria, su proposta della locale Procura distrettuale antimafia, ha consentito di colpire un sodalizio criminale di matrice calabrese operante su tutto il territorio nazionale e coinvolto nell’importazione di ingenti quantitativi di cocaina provenienti dal Sudamerica, dove poteva contare sull’appoggio di soggetti che facevano da tramite con un potente cartello della droga colombiano.
Sequestri. Nel corso di diverse operazioni di servizio, infatti, i militari del Gico di Firenze hanno sottoposto a sequestro più di 280 kg. di cocaina purissima, per un valore complessivo stimato in 10 milioni di euro. Nel corso delle operazioni sono stati tratti in arresto, 16 persone, risultati essere in organico alle potenti famiglie di ‘ndrangheta ‘Avignone-Viola-Zagari’ e ‘Paviglianiti-Maesano’, originarie di Taurianova e San Lorenzo, molti dei quali da anni trapiantati nelle regioni del Nord Italia, dove – secondo gli investigatori – avevano fatto perdere le proprie tracce, riciclando ingentissime risorse nei più remunerativi settori dell’economia legale.
Il narcotrafficante. Le attenzioni delle Fiamme gialle si sono concentrate su quello che è considerato uno dei principali promotori dei traffici di droga, Stefano Condina di Sant’Eufemia D’Aspromonte, destinatario di due distinte partite di cocaina – per un peso complessivo di 250 kg – provenienti dal Sudamerica e sequestrate nel corso di altrettante operazioni di polizia presso lo scalo portuale di Gioia Tauro. (AGI)
La Dda di Reggio Calabria ha ottenuto dalla Sezione Misure di Prevenzione del locale Tribunale un ulteriore provvedimento di confisca preventiva di beni mobili ed immobili, per un valore di circa 2,5 milioni di euro, riconducibili al patrimonio di Domenico Frascà, di anni 56 da Roccella Jonica (Rc), e del suo nucleo familiare.
Nella mattinata odierna i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria hanno dato esecuzione al provvedimento nei confronti di Frascà, ritenuto contiguo alla ‘ndrangheta nella sua articolazione territoriale denominata “cosca Mazzaferro”, operante in particolare nel comune di Gioiosa Jonica.
L’attività costituisce la prosecuzione dell’operazione convenzionalmente denominata “Crimine”, nell’ambito della quale l’uomo è stato indagato e successivamente condannato in primo grado ad 2 anni e 4 mesi di reclusione, condanna confermata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria e rideterminata in due anni per la scelta del rito abbreviato in ordine al reato di illecita concorrenza sleale pluriaggravata, in quanto in concorso con altri soggetti poneva in essere atti di illecita concorrenza sleale volti al condizionamento dei lavori relativi all’esecuzione dell’appalto avente ad oggetto la realizzazione del tratto della S.S. 106 – Variante al centro abitato di Marina di Gioiosa Jonica (RC), con le aggravanti di avere commesso il fatto per attività finanziata in tutto o in parte dallo Stato e di aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis ed al fine di agevolare la associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta.
Con l’operazione Crimine, infatti, è stato ben delineato il forte condizionamento esercitato dalle cosche Aquino e Mazzaferro nell’esecuzione dei lavori per la realizzazione del tratto della SS 106 – variante al centro abitato di Marina di Gioiosa Ionica mediante l’imposizione alla Gioiosa Scarl, aggiudicataria dell’appalto, di proprie imprese di riferimento.
In particolare nel corso dei lavori la ditta TRA-EDIL FRASCÀ S.r.l., riconducibile a Domenico Frascà, si affianca e sostituisce la ditta Ediltrichilo s.r.l. (impresa vicina agli Aquino) all’indomani di due danneggiamenti alla ditta Gioiosa Scarl.
Significativo risulta il dato che tale sostituzione avviene in condizioni economiche svantaggiose, infatti, Frascà riesce ad “imporre” senza nessuno sforzo un prezzo del ferro superiore a quello praticato dall’impresa uscente, la Ediltrichilo, evidentemente in un’ottica di riequilibrio dei guadagni delle due cosche di riferimento delle due ditte, non spiegandosi in alcun modo la scelta di sostituire una ditta con un’altra per pagare anche un prezzo più alto per lo stesso tipo di materiale. Eloquente dell’imposizione della ditta TRA-EDIL FRASCÀ S.r.l. è stato poi ritenuto il dato oggettivo per cui dal momento della stipula del contratto con la ditta TRA-EDIL non si siano più verificati sul cantiere atti intimidatori.
L’odierno provvedimento scaturisce dalle risultanze investigative patrimoniali del Reparto Operativo dei Carabinieri reggini, che a seguito dell’esecuzione del primo sequestro hanno svolto ulteriori approfondimenti sulle consistenze patrimoniali di Frascà individuando:
– un’impresa operante nel settore edile, con sede in Roccella Jonica, e relativo patrimonio aziendale;
– 2 terreni siti nell’agro del Comune di Roccella Jonica;
– ulteriori rapporti bancari riconducibili ai destinatari del provvedimento,
per un valore economico complessivo che si aggira intorno ai 2,5 milioni di euro
Nella deposizione dell’ufficiale dell’Arma fatti inediti e una ricostruzione dettagliata su ruoli e gradi all’interno della cosca capeggiata da Rango e Bruzzese (oggi pentito)
Mancano solo pochi tasselli. E, poi, il mosaico del grande imbroglio che ha tenuto per decenni sotto scacco l’intera area urbana verrà definitivamente composto. È dal 2013 che i magistrati della Direzione distrettuale antimafia e gli uomini delle sezioni investigative di Arma e Polizia conducono una battaglia senza esclusione di colpi per la riaffermazione della legalità. Una battaglia che, proprio nel corso degli ultimi mesi, ha fatto segnare numerosi punti a favore della Dda che ha assestato colpi durissimi alle organizzazioni criminali operanti nella città capoluogo e nei centri limitrofi. Al centro di numerose attività investigative, la cosca che ha dettato tempi e modi di azione criminale allo scopo di inquinare l’economia sana infiltrando finanche le istituzioni e la politica: quella dei “Rango-Zingari”.
Il maggiore Michele Borrelli
La lotta al malaffare a Cosenza e dintorni è stata condotta secondo precise fasi operative. Prima di innalzare il livello dello “scontro” con la politica, la Dda ha pensato bene di andare a intaccare il sistema criminale alla base, tentando di mettere alle corde gli uomini del clan deputati all’utilizzo dei metodi d’azione tipicamente mafiosi. Soltanto dopo, in un secondo momento, e grazie alla collaborazione di pentiti eccellenti (Adolfo Foggetti e Franco Bruzzese su tutti) ha iniziato a spulciare tra le carte e i documenti che dimostrerebbero l’esistenza di un filo rosso tra malavita e borghesia mafiosa per salire ai livelli sempre più alti della società, a partire della politica. Il secondo step dell’operazione pulizia avviata dalla Dda è ancora alle battute iniziali. Ma il primo sta già per arrivare alla fase conclusiva.
Proprio ieri, infatti, il processo al cosiddetto clan “Rango-Zingari” è entrato pienamente nel vivo con la deposizione del maggiore MicheleBorrelli, capo del Nucleo investigativo del Comando provinciale dell’Arma e da sempre ufficiale dedito al contrasto alla criminalità organizzata. In attesa che, a breve, il gup distrettuale Tiziana Macrì si pronunci sulle posizioni dei presunti aderenti alla cosca che hanno chiesto di essere giudicati con rito abbreviato, il processo in ordinario che vede alla sbarra numerosi imputati (Franco Bruzzese, Daniele Lamanna, Francesco Vulcano, Antonio Chianello, Alessio Chianello, Stefano Carolei, Gianluca Cinelli, Gianluca Marsico, Sharon Intrieri, Jenny Intrieri, Anna Abbruzzese e Giovanni Fiore) ha vissuto un momento particolarmente interessante e importante ai fini della cristallizzazione dei fatti contestati. Il maggiore Borrelli è stato chiamato a deporre dal pm distrettuale Pierpaolo Bruni, che gli ha chiesto di ricostruire la genesi delle attività investigative che hanno condotto ai blitz approntati per sgominare la cosca. Borrelli, così, ha ripercorso le tappe della vicenda narrando anche particolari inediti sui rapporti tra gli uomini aderenti alla cosca.
Franco Bruzzese
Un dato su tutti, giusto per rendere l’idea: a parere dell’ufficiale dell’Arma i “Ragno-Zingari” non sono affatto soggetti improvvisati e dediti alla malavita per vezzo o chissà cosa. Si tratta, in realtà, di una cosca vera e propria, organizzata per ruoli e gradi e caratterizzata da un sistema verticistico. A capo del clan, Maurizio Rango e Franco Bruzzese, oggi pentito, ai quali Borrelli e i suoi uomini sono arrivati subito dopo che, lungo il Tirreno, era stata sgominata la cosca Serpa. Le attività contro gli uomini del malaffare cosentino nascono proprio da un filone di indagine che muove i primi passi dal ruolo di Adolfo Foggetti e Antonio Imbroinise “ciap ciap” che subito dopo la cattura dei Serpa acquisiranno per conto dei cosentini sempre maggiore prestigio criminale e autorità lungo il Tirreno. Sarà questo dato a condurre gli uomini di Arma e Polizia a effettuare le prime verifiche sui collegamenti con la città capoluogo e a scoprire l’esistenza di nuovi accordi tra “italiani” e “zingari” per togliere di mezzo la famiglia Bruni e quindi assumere il comando non soltanto nell’area urbana ma anche lungo il Tirreno appunto attraverso le “estensioni” rappresentante da Foggetti.
Il pm Pierpaolo Bruni
Il maggiore Borrelli, in aula (a presiedere il processo Enrico Di Dedda, con a latere Manuela Gallo e Maria Teresa Castiglione), ha così ripercorso le varie tappe della vicenda giudiziaria che ha condotto alla sbarra gli uomini dei clan, sottolineando anche il contributo fornito dai pentiti e in particolare da Adolfo Foggetti per il ritrovamento del cadavere di Luca Bruni e utilissimo a dimostrare che i sospetti degli inquirenti non erano affatto sbagliati: con la morte di Bruni era stato stipulato il patto che avrebbe consentito a Rango e Bruzzese di prendere definitivamente il controllo della città riorganizzando la cosca e dandole degli obiettivi ben precisi in materia di traffico di droga e di riscossione delle estorsioni.
Maurizio Rango
Unica sarebbe stata la “bacinella” il cui controllo, come ruolo di contabile, sarebbe stato affidato a Ettore Sottile. In posizione verticistica, anche Luciano Impieri, Daniele Lamanna, Gennaro Presta e Antonio Bruzzese “Banana”, al quale era stato affidato il compito di gestire il traffico di droga. In ascesa, poi, Domenico Mignolo, coinvolto anche nei fatti di Marano Marchesato (danneggiamenti e minacce ad alcuni politici) e considerato il “pupillo” di Rango. Proprio in relazione a questo rapporto speciale, Borrelli ha riportato un episodio inedito: subito dopo l’arresto di Mignolo, Rango si recherà sotto le inferriate del carcere di Cosenza tentando di mettersi in contatto con lo stesso “Domenico” (che chiamerà per nome da sotto il muro di cinta) per comunicargli qualcosa; un particolare emerso anche dalle intercettazioni telefoniche. Su altri aspetti, il maggiore Michele Borrelli non ha potuto aggiungere ulteriori particolari sia perché alcune attività sono state condotte dalla Polizia sia perché altri aspetti sono inerenti potenziali altre attività investigative in corso.
Ieri stesso, in aula, sono state ascoltate alcune vittime della cosca. Tra queste, padre e figlio, titolari di una pizzeria centrata da diversi colpi di pistola proprio in un sabato sera affollatissimo del 2013. Un’intimidazione per costringere i due a versare la mazetta nelle casse del clan. Ma alla testimonianza resa ieri in aula hanno fatto da contraltare le deposizioni di Daniele Lamanna che, chiamato direttamente in causa e collegato in video conferenza, ha chiesto di poter parlare per contestare la ricostruzione affermando di non aver mai intimidito i titolari della pizzeria, ubicata tra l’altro vicino la sua abitazione. La prossima udienza del processo è fissata per il 28 aprile prossimo. A sfilare saranno ancora i testi della pubblica accusa.
Dopo un’intera giornata di lavoro in Prefettura, intorno alle ore 20 la Commissione antimafia si è recata nel negozio di Tiberio Bentivoglio
“E’ stata una giornata che risponde agli obiettivi che ci eravamo posti, cioè di registrare anche i grandi risultati che sono stati ottenuti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine nel tempo che ci separa dall’ultima missione, questa è la terza per noi a Reggio Calabria. Risultati importanti che tuttavia non ci fanno registrare ancora la sconfitta della ‘ndrangheta”. Lo ha detto Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia, al termine della prima giornata a Reggio Calabria. Dopo un’intera giornata di lavoro in Prefettura, intorno alle ore 20 la Commissione si è recata nel negozio di Tiberio Bentivoglio, l’imprenditore che si è ribellato al racket ed ha subito innumerevoli intimidazioni e un tentato omicidio. Da ultimo, l’incendio del magazzino pochi giorni prima di aprire il nuovo punto vendita, nel centralissimo lungomare di Reggio Calabria, all’interno di un bene confiscato. Prima di entrare a far visita all’imprenditore, Rosy Bindi ha risposto alle domande dei cronisti sulla recrudescenza dell’attività criminale in città, è solo di due giorni fa un tentato omicidio nel quartiere di Gallina: “La recrudescenza criminale – ha detto la Bindi – è da attribuire al fatto che non si lascia tregua da parte dell’attività repressiva dello Stato, quindi da questo punto di vista riteniamo che la ‘ndrangheta voglia, con il ritorno ad atti di violenza, dimostrare che esiste ancora. D’altra parte pero’ si registra anche da parte di collaboratori di giustizia, di chi denuncia, una maggiore consapevolezza che la ‘ndrangheta non sara’ mai il futuro di questa terra”. Bindi ha negato, rispondendo ai giornalisti, che chi denuncia viene lasciato solo: “Lo stesso Tiberio Bentivoglio può riconoscere che nella solitudine devastante non c’è mai stato lui e non c’è nessuno. Che siano situazioni molto difficili, nelle quali qualunque tipo di vicinanza non compensa mai il loro sacrificio, questo e’ vero, ma le istituzioni non li hanno mai lasciati soli e non è vero che c’è carenza dal punto di vista del risarcimento, perché si tribolerà un po’, Bentivoglio l’abbiamo accompagnato anche perché qualche volta ha dovuto lottare contro una burocrazia inutile ma non si puo’ dire che i risultati non si siano ottenuti. Siamo qui non a caso ancora una volta”.
“Sulle carenze di organico – ha proseguito la presidente della Commissione antimafia – abbiamo per la prima volta voluto sentire anche il presidente del Tribunale perche’ questo è un problema vero e non mancheremo di farlo presente nelle sedi proprie perché è evidente che combattere la ‘ndrangheta significa prima di tutto mettere lo Stato nelle condizioni di farlo, per la magistratura, per le forze dell’ordine e per tutto il resto. Dopodiche’ tutta l’attività repressiva che possiamo mettere in atto non sarà mai sufficiente, fin quando saremo costretti a celebrare gli eroi non avremo vinto la ‘ndrangheta. La ‘ndrangheta la vinceremo il giorno in cui ogni cittadino fara’ il suo dovere, dirà di no alla ‘ndrangheta”. Oggi la Commissione antimafia si sposterà a Locri.
“Siamo nella Calabria di sotto, quando andiamo nella Calabria di sopra ne parliamo”. Cosi’ Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia, a Reggio Calabria per una due giorni che terminerà a Locri ha risposto alle domande dei cronisti sul “sistema Rende” e l’arresto dell’ex assessore regionale del Pd Sandro Principe. A chi le ha ricordato una nota stampa dei parlamentari eletti in Calabria che si erano detti contenti perché non era stato sciolto il comune di Rende, la Bindi ha risposto: “Non avevamo torto noi, evidentemente c’erano state delle carenze da parte di chi aveva fatto il lavoro”. Infine, alle domande su quando la Commissione si recherà a Rende, Bindi ha risposto: “Il programma lo fa l’ufficio di presidenza”. (AGI)
Nell’ambito del programma “Focus Ndrangheta”, la Questura di Catanzaro ha effettuato controlli nella zona a sud della città riscontrando numerose violazioni
Nell’ambito del programma “Focus Ndrangheta”, nella mattinata di ieri si sono svolte una serie di operazioni e servizi coordinati dalla Questura di Catanzaro con l’impiego della polizia di Stato, dei carabinieri e della Guardia di Finanza. Le attività si sono svolte nei quartieri a sud della città, caratterizzati da elevata densità di famiglie di etnia rom, dove sono stati effettuati controlli per la prevenzione e contrasto del crimine, con l’impiego di personale del Commissariato sezionale di Catanzaro Lido, dell’UPGSP, Squadra Volanti, del Reparto Prevenzione Crimine di Vibo Valentia, insieme ad equipaggi dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e del Nucleo Operativo Ambientale carabinieri (il Noe).
Risultati. I risultati complessivamente conseguiti hanno permesso di identificare 100 persone, controllare 70 autoveicoli, elevare dieci contravvenzioni per violazione al Codice della Strada, controllare 19 soggetti agli arresti domiciliari ed effettuare 5 perquisizioni personali. Si è, inoltre, svolta l’operazione del Noe che, supportato dagli equipaggi della Guardia di finanza, polizia e carabinieri, ha interessato una società che opera come centro di raccolta di materiale ferroso in una zona extraurbana, sul versante ionico. A seguito di un controllo sarebbero emerse numerose violazioni alle norme ambientali e ad alcune prescrizioni nell’autorizzazione all’esercizio rilasciata dalla Provincia di Catanzaro. Pertanto, tre persone sono state denunciate all’autorità giudiziaria. L.V. L.M. e Z.D. sono ritenuti responsabili di violazioni al codice dell’Ambiente per smaltimento illecito di rifiuti.
Ieri anche Tv7, rubrica del Tg1, si è occupata dell’arteria che dovrebbe collegare la costa tirrenica a quella jonica. Ecco tutti i retroscena della strada “fantasma”
di GIUSEPPE BAGLIVO
Una vera e propria “telenovela” lunga quasi 40 anni, fra lavori infiniti e progettazioni che procedono con una lentezza estenuante. E’ la storia della “Trasversale delle Serre”, opera strategica per il collegamento fra l’area ionica e quella tirrenica, da Soverato a Tropea passando per le Serre, con un percorso di 53 chilometri e lavori iniziati nel lontano 1985. Ma di questi, meno di 10 chilometri sono stati realizzati nella parte tirrenica, mentre le opere sulla ionica sono ancora lontani dall’essere terminate. Se per assurdo il tempo di avanzamento dei lavori dovesse coincidere con quello dei lotti sin qui realizzati, cioè 700 metri all’anno, per realizzare l’intero percorso servirebbero altri 60 anni.
Eppure, l’idea di una strada che collegasse la sponda tirrenica a quella ionica attraversando le Serre risale al 1966, anche se i tratti ad oggi finiti sono solo tre o poco più. L’intera opera è partita male sin dall’inizio, aggiudicata con circa il 45% di ribasso. Tre lotti sono stati poi suddivisi ad altrettante società consortili, tutte con alle dipendenze meno di 15 lavoratori, cosa che ha impedito l’attività di rappresentanza sindacale, anche se negli anni i sindacati non hanno mancato di denunciare il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori, a partire da quelli contrattuali: stipendi erogati in ritardo e mancato versamento degli oneri assicurativi e previdenziali, con continue sospensioni dei lavori per scioperi mirati alla richiesta del salario ed un ulteriore blocco durato circa due anni nel 2002 dopo il licenziamento in tronco di tutte le maestranze per chiusura del cantiere da parte di una delle imprese appaltatrici.
Progetto esecutivo e paradossi. Un nuovo progetto preliminare riguardante la fascia vibonese è stato presentato dalla Provincia nel 1996 e nell’occasione non sono mancate le rassicurazioni circa la celerità del completamento di tutte le opere per un costo di 300 miliardi di lire. Come dire: 15,8 miliardi a chilometro, visto che il tracciato di competenza della Provincia di Vibo (la restante parte è della Provincia di Catanzaro) non supera i 19 chilometri. Singolare, poi, quanto accaduto a Spadola dove una fabbrica per la lavorazione di marmi e graniti, sorta su un’area di 10mila metri quadri e nata nel 2001 grazie al Patto territoriale, nel 2003 si è vista comunicare dall’Anas la notizia che il progetto di massima della Trasversale interessava pure il terreno di sua proprietà. Altre polemiche sono inoltre scoppiate sul tracciato fra Gagliato e Soverato che, secondo un comitato di cittadini, è andato a cancellare vasti uliveti distruggendo un sito archeologico di notevole importanza. Attualmente la Trasversale delle Serre risulta suddivisa in 5 tronchi principali: dallo svincolo delle Serre a Vazzano, passando per i bivi di Montecucco, Chiaravalle, Serra San Bruno e Soverato. Ciascun tronco è stato a sua volta suddiviso in vari lotti.
Sisde e ‘ndrangheta. Non sono poi mancati diversi attentati di matrice mafiosa durante l’esecuzione dei lavori della Trasversale. Nel luglio 2005, infatti, criminali rimasti ignoti sono entrati nel cantiere armati di pistola, intimando ai lavoratori di sospendere ogni lavoro, dando poi fuoco ad un mezzo di un’impresa appaltatrice. Il 3 settembre 2008, invece, un attentato incendiario a Simbario ha messo a rischio la vita di 150 operai, posto che nel cantiere si trovavano alcune bombole di ossiacetilene. L’allarme sulle possibili ingerenze della ‘ndrangheta nei lavori per la Trasversale era stato tuttavia segnalato dal Sisde con una relazione al Governo datata 2 agosto 2007. Secondo i servizi segreti, infatti, le proiezioni imprenditoriali e collusive della ‘ndrangheta riguardavano principalmente i settori dei lavori stradali, soprattutto quelli di ammodernamento dell’A3, della Statale 106 e “della SS.182, nota anche come “Trasversale delle Serre”. Da ultimo, a riferire il 31 marzo 2005 nel corso del processo “Genesi” dinanzi al Tribunale di Vibo, dei dissapori sui lavori della Trasversale e sulle tangenti da spartire per l’intera opera – sorti nel 1995 fra i Mancuso di Limbadi ed i Vallelunga di Serra San Bruno – è stato il pentito Vitaliano Turrà dell’omonima “famiglia” di Serra ma con diramazioni a Guardavalle. All’affaire, secondo il collaboratore di giustizia, avrebbe preso parte anche il clan Chiefari di Torre Ruggiero, centro al confine con le Serre vibonesi. Nonostante le dichiarazioni dei collaboratori e l’allarme del Sisde, nessuna inchiesta della Dda di Catanzaro ha però sinora fatto direttamente luce sulle ipotizzate ingerenze dei clan nella costruzione di un’opera pubblica milionaria e di fondamentale importanza per l’intera Calabria.
Seguono le indagini i militari della Squadra mobile di Reggio Calabria, coordinati dalla Dda. Gli inquirenti ritengono si tratti di ‘ndrangheta
Un uomo di 48 anni, Domenico Polimeno, è stato ucciso in un agguato nel corso del quale è rimasto gravemente ferito anche un altro uomo, Giuseppe Greco di 56 anni. E’ accaduto nella tarda serata di ieri in localita’ Sorita del Comune di Calanna, in provincia di Reggio Calabria. I due erano insieme nell’abitazione di Polimeno quando qualcuno ha sparato armato di fucile colpendoli dal balcone dell’abitazione. E’ stata una telefonata al 113 ad avvertire la polizia di colpi d’arma da fuoco nella zona. Sul posto sono intervenute le Volant. Polimeni è deceduto, mentre Greco è rimasto ferito alla testa, al volto e al polmone. Greco, in particolare, coinvolto anni fa nell’indagine Meta della Dda di Reggio Calabria, era stato già collaboratore di giustizia, a carico di Polimeni invece non risultavano indagini per criminalità organizzata. Le indagini sono condotte dalla Squadra Mobile. (AGI)
Valter Pastena, funzionario della Ragioneria di Stato, fa riferimento ad un dossier inerente l’attuale ministro delle Infrastrutture e alcuni presunti scatti fotografici con esponenti della cosca calabrese
Rapporti tra l’attuale ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio ed esponenti della ‘ndrangheta. Voci che si sono rincorse per mesi senza che mai emergesse con chiarezza in che misura l’esponente di governo fosse entrato in contatto con il clan dei “Cutresi” in Emilia Romagna. A svelare altri inquietanti dettagli sono adesso le intercettazioni scaturite dall’affaire Guidi-Gemelli. In una conversazione proprio con il compagno della ministra, Gianluca Gemelli, l’ex funzionario della Ragioneria di Stato e poi consulente del ministero dello Sviluppo economico, Valter Pastena, fa riferimento a un dossier, inerente l’attuale ministro delle Infrastrutture: “Io ti devo parlare da vicino”, chiedeva il consulente. “Ma proprio da vicino, molto da vicino, ma tutte cose che addirittura ti puoi togliere pure qualche sfizio… ma serio ti puoi togliere qualche sfizio, eh?”. E aggiungeva: “Tieni conto che i carabinieri prima che tu venissi là, sono venuti a portarmi il regalo in ufficio, perché tu non stai attento. Hai visto il caso di Reggio Emilia? Finito ‘sto casino usciranno le foto del Delrio con i mafiosi di Cutro. Tu non ti ricordi quello che io ti dissi, che c’era un’indagine, quelli che hanno arrestato a Mantova, a Reggio Emilia, i cutresi, quelli della ‘ndrangheta… no, te l’ho detto, perché chi ha fatto le indagini è il mio migliore amico, e adesso ci stanno le foto di Delrio con questi” (Red 3).
Il provvedimento eseguito dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria. Sigilli a beni mobili ed immobili riconducibili al patrimonio di Giuseppe Panuccio
La Direzione Distrettuale antimafia della Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha ottenuto dalla Sezione Misure di Prevenzione del locale Tribunale un provvedimento di confisca preventiva di beni mobili ed immobili per un valore di circa un milione e mezzo di euro riconducibili al patrimonio di Giuseppe Panuccio, di anni 85 da Taurianova, e degli eredi di Gaetano Merlino.
“Tutto in famiglia”. I carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria hanno dato esecuzione al provvedimento nei confronti degli anzidetti, ritenuti appartenenti alla ‘ndrangheta nella sua articolazione territoriale denominata cosca Maio, operante in particolare nella frazione San Martino del Comune di Taurianova. L’attività costituisce la prosecuzione dell’operazione convenzionalmente denominata “Tutto in famiglia”, nell’ambito della quale Panuccio e Merlino erano stati indagati e successivamente condannati, in Appello, entrambi alla pena di 12 anni di reclusione in ordine al reato di associazione di tipo mafioso. L’operazione “Tutto in famiglia”, infatti, ha consentito di delineare gli aspetti strutturali e quelli operativi della cosca operante in San Martino di Taurianova, dimostrando che in quel territorio esiste una Locale di ‘ndrangheta, costituita in Società, attesa la documentata esistenza di una “Società Maggiore” e di una “Società Minore”, qualificando il ruolo del Michele Maio appunto in “Capo Società”.
L’indagine. Il quadro emerso dalla complessa attività investigativa ha evidenziato come la cosca Maio sia un’organizzazione criminale che, avvalendosi della forza di intimidazione e della conseguente condizione di assoggettamento, si dedichi principalmente all’attività di usura e alla commissione di reati (estorsioni, danneggiamenti, atti intimidatori in genere) per conseguire illeciti profitti. L’attività di indagine ha consentito infatti di accertare che la cosca di San Martino di Taurianova tra esse i suoi illeciti guadagni, oltre che dall’attività di usura, anche dalle estorsioni, conseguendo denaro ed altre utilità economiche con minaccia e violenza, imponendo versamento di somme o la consegna di parte del materiale prodotto a commercianti, imprenditori e proprietari terrieri.
Intercettazioni. Numerose sono infatti le conversazioni intercettate in cui si parla di “percentuali” sulle attività economiche svolte dai privati ed esplicitamente di riscossione di somme non dovute, con l’utilizzo di termini quali “busta”. Le emergenze investigative hanno permesso di disvelare un vero e proprio sistema estorsivo legato ad un forte clima di intimidazione gravante sui cittadini dimoranti o che si trovino, per qualunque motivo, ad operare nel territorio di San Martino di Taurianova, consentendo di documentare lo svolgimento da parte della cosca dell’attività estorsiva nei confronti di imprese aggiudicatarie di lavori pubblici, per un importo pari al 2 – 3 % del valore complessivo dell’appalto, produttori di arance e proprietari di terreni agricoli.
Il patrimonio confiscato. Il provvedimento, scaturito dalle risultanze investigative patrimoniali del Reparto Operativo dei Carabinieri reggini, che hanno consentito di accertare illecite accumulazioni patrimoniali, riguarda beni consistenti in: un’impresa operante nella coltivazione di agrumi; undici tra unità immobiliari e terreni ubicati in Taurianova, Varapodio, Rizziconi e Oppido Mamertina; svariati rapporti bancari, titoli obbligazionari, polizze assicurative riconducibili ai destinatari del provvedimento.
Nell’ambito del progetto “Focus ‘ndrangheta” il Questore ha emesso sette fogli di via obbligatorio ad altrettanti soggetti dediti ad attività delinquenziali
Sette fogli di via obbligatorio sono stati emessi dal Questore di Catanzaro che ha disposto Controlli a tappeto della zona sud del capoluogo con l’ausilio di un elicottero della polizia di stato nell’ambito del progetto “focus ‘ndrangheta”. Nel corso dell’operazione è stata sequestrata una discarica abusiva di 650 metri quadri.
Nel corso dell’attività prevenzione, effettuata con la partecipazione del personale delle Volanti della Questura, della Squadra Mobile e del Reparto Prevenzione Crimine di Vibo Valentia, sono stati intensificati i controlli a persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, verificando nelle rispettive abitazioni 31 arrestati domiciliari e 22 sorvegliati speciali. Sono stati effettuati numerosi posti di controllo durante i quali i soggetti identificati sono stati 220, i veicoli controllati più di 150 e le contravvenzioni al codice della strada elevate 8.
Inoltre diverse sono state le perquisizioni domiciliari e personali effettuate a carico di pericolosi pregiudicati, con l’ausilio delle unità cinofile antidroga ed antiesplosivo. L’attenzione della Questura si è concentrata anche nell’emissione di 7 fogli di via obbligatorio con il quale altrettanti personaggi dediti ad attività delinquenziali sono stati allontanati dal Comune di Catanzaro con il divieto di farvi ritorno. In tale contesto è avvenuta la denuncia in stato di libertà all’autorità giudiziaria di una persona per il reato di detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente e di altre due per i reati di gestione, raccolta e trasporto illecito di rifiuti oltre per getto pericoloso di cose. (Cz1)
La Dda chiede al gip di cristallizzare la prova del Dna che ha portato in carcere Francesco Fortuna, ritenuto uno degli esecutori del delitto avvenuto all’interno del clan Bonavota
Il pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo, ha avanzato al gip distrettuale richiesta di incidente probatorio in relazione all’esame del Dna che avrebbe consentito dopo 12 anni di fare luce sull’omicidio di Domenico Di Leo (alias “,Mico u Catalanu”), ritenuto dagli inquirenti un componente del clan Bonavota con il ruolo di “braccio armato”. La richiesta di incidente probatorio serve alla pubblica accusa per “cristallizzare” la prova già durante la fase preliminare e prima dell’apertura del dibattimento. Imputato del delitto è Francesco Fortuna, 36 anni, di Sant’Onofrio, arrestato il 14 gennaio scorso nell’ambito di un’inchiesta della Dda che lo indica come uno degli esecutori materiali dell’omicidio di Domenico Di Leo, ucciso nella notte del 12 luglio 2004 da numerosi colpi di kalashnikov e fucili.
Francesco Fortuna
I poliziotti della Squadra Mobile e della Squadra Volante e Divisione Anticrimine della Polizia Scientifica di Vibo Valentia, nell’immediatezza dell’agguato procedettero al sequestro della Fiat Uno risultata rubata a Pizzo la sera precedente all’agguato e successivamente abbandonata e data alle fiamme. Il veicolo, tuttavia, per cause indipendenti dalla volontà degli autori, rimase solo parzialmente incendiato e detta circostanza ha consentito di rinvenirvi all’interno, in ottimo stato, un fucile automatico calibro 12, modello “special 80” marca Benelli e un fucile Kalashnikov, completo di caricatore. Sempre in buono stato di conservazione, all’interno dell’autovettura, sono state poi rinvenute e repertate due bottiglie in plastica, quattro guanti in lattice monouso e due maniche di lana di colore blu.
Su detti reperti sono stati svolti accertamenti con indagini biologiche, affidati ai laboratori di biologia della polizia scientifica. Ulteriore consulenza tecnica era stata affidata per l’esaltazione delle impronte papillari latenti, esaltate a bordo della Fiat “Uno”.
Attraverso la consulenza scientifica dei carabinieri del Ris di Messina sono stati quindi venivano eseguiti gli esami comparativi che tuttavia davano esito negativo.
La svolta nelle indagini. Arriva attraverso la relazione di indagini biologiche effettuata nell’ambito di un procedimento penale trattato dalla Procura di Vibo. Vengono così individuati due profili genotipici riconducibili a soggetti di sesso maschile che hanno avuto un “ruolo attivo” nella commissione del grave fatto di sangue, perché le relative tracce sono state rinvenute nei guanti in lattice utilizzati. La polizia giudiziaria ha quindi proceduto ad acquisire, “in modo occulto ma legittimo”, diversi profili biologici di soggetti appartenenti o vicini al sodalizio dei Bonavota che potevano aver preso parte all’agguato, per la successiva comparazione. Tale attività di polizia veniva eseguita su Francesco Fortuna ed altri quattro soggetti, tre di Sant’Onofrio ed uno di Vibo Valentia. All’esito, gli investigatori ritengono di avere prove solide nei confronti di Francesco Fortuna. In particolare sono le tracce di dna rinvenute su quattro guanti in lattice a “inchiodare” Francesco Fortuna. Le analisi hanno consentito di isolare un dna che, comparato con il profilo genotipo dell’indagato, ha dato “completa sovrapponibilità”. (g.b.)
Le intimidazioni sono state commesse nella zona sud della città capoluogo di regione. L’operazione dei carabinieri è coordinata dalla Procura distrettuale
I carabinieri della Compagnia di Catanzaro stanno portando a termine dalle prime luci dell’alba un’operazione finalizzata all’arresto di quattro persone ritenute responsabili di una serie di atti intimidatori (bottiglie incendiarie) e danneggiamenti con finalità estorsive, aggravati dal metodo mafioso. Le intimidazioni sono state commesse nella zona sud di Catanzaro. I dettagli saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che avrà luogo alle ore 11:00 al Comando provinciale dei carabinieri di Catanzaro. Saranno presenti i procuratori Giovanni Bombardieri e Vincenzo Luberto. L’operazione è stata portata a termine dai militari dell’Arma guidati dal capitano Antonino Piccione, da quelli del Norm guidati dal capitano Michele Massaro e dai carabinieri della Stazione di Catanzaro Lido guidati dal maresciallo Antonio Macrì.
Fornite le generalità delle quattro persone raggiunge dal provvedimento all’alba di oggi a seguito delle indagini dirette dalla Procura della Repubblica
Sono Santo Mirarchi, Antonio Giglio , Antonio Sacco e Domenico Falcone le quattro persone arrestate dai carabinieri della compagnia di Catanzaro perchè accusate di atti intimidatori e danneggiamenti con finalità estorsive, utilizzando bottigliette incendiarie, aggravati dal metodo mafioso.
Le indagini. L’operazione è stata compiuta al termine delle indagini, dirette dalla Procura della Repubblica, su una serie di attentati ai danni commercianti nella zona sud della città.
Il blitz. A condurre in porto gli arresti, gli uomini dei carabinieri della compagnia di Catanzaro, guidati dal capitano Antonino Piccione, del Norm guidati dal capitano Michele Massaro e della stazione di Catanzaro Lido, guidati dal maresciallo Antonio Macrì.
I giudici del Riesame hanno revocato invece gli arresti domiciliari per i politici Pietro Ruffolo, Giuseppe Gagliardi, Umberto Bernaudo e Rosario Mirabelli
Resta agli arresti domiciliari Sandro Principe. ll Tribunale del Riesame di Catanzaro, presieduto dal giudice Giuseppe Valea, ha infatti respinto la richiesta di scarcerazione per l’ex sindaco di Rende.
Revocati invece gli arresti domiciliari per gli altri politici finiti nell’inchiesta della Dda di Catanzaro denominata “Sistema Rende”, ovvero Pietro Ruffolo, Giuseppe Gagliardi, Umberto Bernaudo e Rosario Mirabelli. L’accusa per i cinque esponenti politici è quella di concorso esterno in associazione mafiosa e di aver ricevuto il sostegno elettorale del clan Lanzino-Ruà.
Il procuratore aggiunto della Dda, Vincenzo Luberto, e il pm Pierpaolo Bruni hanno depositato al Tdl nuovi atti. In particolare, un verbale con le dichiarazioni di Amerigo Castiglione, candidato a sindaco di Rende nel 2011 . Nella stessa inchiesta sono coinvolti anche alcuni presunti esponenti della cosca Lanzino-Ruà. Stando all’impalcatura accusatoria, il clan avrebbe procacciato voti per Sandro Principe e gli altri politici indagati che in cambio avrebbero ottenuto favori, denaro e pure assunzioni in cooperative del Comune.
Rigettate invece altre richieste dei difensori degli imputati che avevano chiesto l’acquisizione di sentenze e l’escussione di altri testimoni. Processo “Black money” alle battute finali
Nuova udienza stamane nell’aula bunker del nuovo Tribunale di Vibo Valentia per il processo nato dall’operazione antimafia denominata “Black money” contro il clan Mancuso. Il Tribunale collegiale presieduto da Vincenza Papagno, a latere i giudici Pia Sordetti e Giovanna Taricco, a scioglimento delle riserve avanzate dal pm Marisa Manzini e dalle difese di alcuni degli imputati ha disposto la testimonianza in aula per le prossime udienze – fissate per il 21 e 28 aprile – di Elisabetta Franza, medico psicologo dell’Asp di
Pantaleone Mancuso
Vibo nel 2012 (indicata quale persona offesa dalla condotta dell’imputato Damian Fialek), del titolare della ditta Mirarchi Antonio che nel 2003 si è occupato dei lavori per la Fondazione “Cuore Immacolato di Maria” a Paravati (in merito all’individuazione del fornitore di calcestruzzo per i lavori svolti nel 2003 per la fondazione “Cuore Immacolato di Maria” a Paravati alla luce della testimonianza resa in aula da Padre Cordiano il 18 marzo 2015), di Yuliya Kazlouskaya e Vladimiro Tripodi, ex dipendenti della “Vfi” e della “Sud Consulting”, di Vincenzo Fiocco, amministratore giudiziario dei beni in sequestro in relazione al processo, di Umberto Toraldo, amministratore unico della società “Marina del Faro” e del luogotenente Cannizzaro, comandante della Stazione dei carabinieri di Briatico nel 2005 . Acquisito inoltre il verbale di dichiarazioni rese da Adriano Currà al difensore dell’imputato Raffaele Corigliano il 26 marzo 2013.
Giovanni Mancuso
I rigetti. I giudici a scioglimento della riserva hanno invece respinto la testimonianza di Maddalena Corso, non ritenendola necessaria alla luce di quanto riferito da Eugenio William Polito e da Domenico Polito nel corso dell’udienza del 21 ottobre 2014. Respinte, altresì, le richieste di sentire in aula Antonio Forelli e Mario De Rito (quest’ultimo imputato nel processo “Black money” nel troncone che si sta celebrando con rito abbreviato) dal momento che i rapporti tra questi e il testimone di giustizia di Briatico, Giuseppe Grasso, risultano già sufficientemente chiariti nel corso del dibattimento con le testimonianze rese da Eugenio William Polito, Francesca Franzè e Giuseppe Grasso, oltre gli stessi avere costituito oggetto del processo a carico di Salvatore Sorrentino, la cui sentenza è stata acquisita al fascicolo per il dibattimento. Non sarà infine sentito il comandante della Stazione dei carabinieri di Pandino , non avendo i coniugi Grasso indicato la persona con la quale avrebbero interloquito in occasione della prima denuncia delle intimidazioni subite da Salvatore Sorrentino.
Agostino Papaianni
Respinta infine la richiesta dell’avvocato Francesco Stilo in merito alla richiesta di acquisizione di una sentenza che “da informazioni giornalistiche – sottolinea il Tribunale – risulterebbe emessa in procedimento connesso a quello odierno”. Il riferimento è alla sentenza emessa dal Tribunale di Salerno a carico di un magistrato del distretto di Corte d’Appello di Catanzaro coinvolto nell’inchiesta “Purgatorio”. Ad avviso del Tribunale, qualora l’avvocato Stilo voglia utilizzare documentazione a supporto dei rilievi che intendaesvolgere potrà direttamente produrre la sentenza.
Leonardo Cuppari
Gli imputati. Imputati a vario titolo dei reati di associazione mafiosa, estorsione, usura, detenzione illegale di armi, intestazione fittizia di beni, sono: Giovanni Mancuso, Antonio Mancuso, Giuseppe Mancuso (cl. ’77, figlio del defunto boss Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”), Damian Fialek, Antonino Castagna, Agostino Papaianni, Leonardo Cuppari, Antonio Prestia, Gaetano Muscia, Pantaleone Mancuso (detto “Scarpuni”), Nicola Castagna, Filippo Mondella, Antonio Velardo (latitante), Raffaele Corigliano, Carmela Lopreste, Giuseppe Papaianni, Francesco Buccafusca, Pantaleone Zoccali, Carmina Mazzitelli, Ottorino Ciccarelli, Alberto Caputo. (g.b.)