I carabinieri di Reggio Calabria, con l’accusa di associazione di tipo mafioso, hanno tratto in arresto Antonino Latella, 67 anni, considerato dagli investigatori esponente di spicco della cosca di ‘ndrangheta dei “Ficara-Latella”, clan attivo nella zona sud di Reggio Calabria. Nei confronti dell’uomo è stato eseguito, dagli uomini dell’Arma, un ordine di pene concorrenti emesso dalla Procura. Pertanto, Latella dovrà scontare una pena residua di quattro anni, in relazione a reati commessi fra il 1992 al 2011.
La requisitoria della Dda di Reggio Calabria nel processo “Ultima Spiaggia” che si sta celebrando in abbreviato contro una della più temute consorterie criminali
Richieste di pena per oltre 600 anni di reclusione sono state chieste dai pm della Dda di Reggio Calabria, Antonella Crisafulli e Antonio De Bernardo nei confronti di 53 imputati coinvolti nel processo in abbreviato nato dall’operazione denominata “Ultima Spiaggia” contro il clan Paviglianiti di San Lorenzo e Bagaladi e scattata nel dicembre 2014.
Queste le richieste di condanna: Angelo Paviglianiti, Settimo Paviglianiti (in foto a sinistra), Angelo Falco, Domenico Favasuli, (cl. ’75), Giovanni Iacopino, Luca Bruno Cannizzaro (cognato di Settimo Paviglianiti) e Carmelo Pangallo, 20 anni di reclusione a testa. Giuseppe Scalia, Davide Iacopino, Vincenzo Abenavoli, Giuseppe Liuzzo, Giuseppe Maesano, Maurizio Bruciafreddo, Pasquale Minotolo, Antonio Esposito, Bruno Gattuso, 10 anni ciascuno. Dodici anni di carcere sono stati chiesti per Carmelo Borrello, Antonio Cannizzaro, Giovanna Cannizzaro, Carmelo Iacopino, Francesco Leone, Andrea Russo, Ettore Buonocore, Giovanni Spartico.
Saverio Paviglianiti
Giovanni Gattuso, 18 anni; Salvatore Scuderi, 15 anni e mesi; Rocco Maesano, 14 anni; Giuseppe Mangiola, 6 anni; Lorenzo Marino, 16 anni; Giuseppe Muscianisi 6 anni; Mario Nucera, 16 anni; Antonino Pannuti, 14 anni; Giovanna Paviglianiti e Natale Paviglianiti, 16 anni; Saverio Paviglianiti; Sonia Paviglianiti, 6 anni; Antonio Russo, 14 anni; Bruno Russo, 14 anni; Carmela Scaramozzino, 6 anni; Giuseppe Ambrogio anni 1; Giovanna Spizzica, 6 anni; Antonino Giordano 9 anni e 4 mesi di reclusione. Qualid Hallal e Antonino Maesano, 11 anni e 4 mesi; Paolo Minutolo, 8 anni e 8 mesi; Gennaro Pennestrì, 2 anni di reclusione; Demetrio Romeo, 9 anni e 4 mesi; Leandro Romeno, 10 anni e 8 mesi; Abderrazzak, 14 anni; Antonino Gattuso, 8 anni; Giuseppe Gligora, 4 anni; 8 anni Leo Morabito.
Le richieste di assoluzione interessano: Adriano Ferrara Valentino, Domenico Favasuli (cl. ’90) e Bruno Staiti. (red 2)
Droga e armi nel cuore dell’Aspromonte. Blitz dei carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria. In manette esponenti di primo piano dei clan di San Luca
Alle prime luci dell’alba, i carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria, con l’ausilio con l’ausilio di unità cinofile, dell’8° Nucleo Elicotteri CC di Vibo Valentia e dello Squadrone CC Eliportato Cacciatori “Calabria”, su ordine delle Procure della Repubblica presso i Tribunali di Locri e Palmi, hanno tratto in arresto, in esecuzione di due Ordinanze di custodia cautelare emesse dal Giudice delle indagini preliminari dei rispettivi Tribunali, 23 persone ritenute responsabili, a vario titolo di traffico di armi ed ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti del tipo cocaina, eroina e marijuana, ricettazione, detenzione e porto abusivo di armi, furti venatori e caccia di frodo. Nella circostanza sono state effettuate 30 perquisizioni domiciliari nei confronti di altrettanti indagati nel medesimo procedimento.
Droga e armi. Le indagini, condotte da militari del Gruppo di Locri, dai carabinieri della Stazione di San Luca e dello Squadrone Eliportato Cacciatori “Calabria”, sono scaturite da un attento monitoraggio dell’area aspromontana di pertinenza dei due centri di San Luca e Delianuova ed hanno preso spunto, nel 2013, dall’individuazione di una vasta piantagione di canapa indica in alta montagna nel comune di San Luca. Sono state rinvenute successivamente numerose piantagioni di canapa indica ubicate in alta montagna, cospicui quantitativi di sostanze stupefacenti già confezionati e pronti per la vendita nonché veri e propri arsenali di armi, all’interno di casolari ed ovili riconducibili a soggetti ritenuti contigui alle ‘ndrine di San Luca degli Strangio, detti “Janchi”, e dei Giorgi, detti “Boviciani”, note per i fatti inerenti la faida di San Luca (RC) e la c.d. “Strage di Duisburg” del 15 agosto 2007. Già nel corso dell’attività di indagine ed a riscontro delle stesse erano stati effettuati numerosi arresti in flagranza e sequestri di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti nonché di numerose armi da sparo.
Arsenali di armi e quantitativi di sostanze stupefacenti rinvenuti in alcuni casolari di San Luca. Gli arrestati sono 23, di cui 18 in carcere e 5 ai domiciliari
Nuova operazione contro la ‘ndrangheta in Calabria. Il comando provinciale dei carabinieri di Reggio, con l’ausilio di unità cinofile, dell’ottavo nucleo elicotteri carabinieri di Vibo Valentia e dello squadrone eliportato Cacciatori Calabria, ha sgominato un vasto traccio di armi e di droga nel cuore dell’Aspromonte.
Gli indagati. Sono complessivamente 27 le persone coinvolte. Per 18 si sono aperte i cancelli del carcere mentre altre 5 sono finite ai domiciliari. I carabinieri hanno poi notificato quattro denunce a piede libero con l’obbligo di presentazione alla Pg.
Le accuse. Le ventisette persone finite al centro dell’inchiesta coordinata dalle Procure di Locri e di di Palmi, sono accusate, a vario titolo, di traffico di armi ed ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti del tipo cocaina, eroina e marijuana, ricettazione, detenzione e porto abusivo di armi, furti venatori e caccia di frodo. Nella circostanza sono state effettuate 30 perquisizioni domiciliari nei confronti di altrettanti indagati nel medesimo procedimento.
Armi e droga nei casolari di San Luca. Tutto è partito da un attento monitoraggio dell’area aspromontana di pertinenza dei due centri di San Luca e Delianuova ed hanno preso spunto, nel 2013, dall’individuazione di una vasta piantagione di canapa indica in alta montagna nel comune di San Luca. Sono state rinvenute successivamente numerose piantagioni di canapa indica ubicate in alta montagna, cospicui quantitativi di sostanze stupefacenti già confezionati e pronti per la vendita nonché veri e propri arsenali di armi, all’interno di casolari ed ovili riconducibili a soggetti ritenuti contigui alle ‘ndrine di San Luca degli Strangio, detti “Janchi”, e dei Giorgi, detti “Boviciani”, note per i fatti inerenti la faida di San Luca e la cosiddetta “Strage di Duisburg” del 15 agosto 2007.
Complessivamente sono 42 le persone coinvolte nell’inchiesta condotta dai carabinieri. Per quattordici l’arresto è scattato in flagranza di reato
Ecco l’elenco delle persone coinvolte nell’operazione denominata “Colombiani d’Aspromonte” e che ha permesso ai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria di sgominare un vasto traffico di armi e di droga. Complessivamente sono 42 le persone arrestate nei centri aspromontani di San Luca e Delianuova, molti di quali sorpresi in flagranza di reato nel corso del blitz odierno.
Questa la lista degli indagati destinatari di ordinanze di custodia cautelare in carcere:
1) Andrea Cutrì, 30 anni di San Luca,
2) Antonio Giampaolo 26 anni di San Luca,
3) Domenico Giampaolo 26 anni di San Luca,
4) Antonio Giorgi, 53 anni di San Luca,
5) Francesco Giorgi 22 anni di San Luca,
6) Francesco Giorgi, alias Schillaci, 30 anni di San Luca,
7) Giovanni Giorgi, 73 anni di San Luca (ai domiciliari)
8) Salvatore Giorgi, 58 anni, di San Luca,
9) Domenico Mammoliti, 28 anni, di San Luca,
10) Giuseppe Mammoliti, 58 anni di San Luca,
11) Saverio Mammoliti, alias Bambolo 32 anni di di San Luca;
12) Antonio Pelle, alias Palea, 47 anni, di San Luca,
13) Giuseppe Pipicella, 59 anni di San Luca,
14) Donato Sergi, alias Arcangelo, 48 anni, di San Luca,
15) Giuseppe Strangio, alias “Champagne”, 61 anni di San Luca,
16) Giuseppe Cagliostro, 32 anni di Delianuova (obbligo di firma)
17) Basilio Carbone, alias Silio, 37 anni di Delianuova (obbligo di firma)
18) Giuseppe Carbone, alias “U Zingaru” 39 anni di Delianuova (domiciliari)
19) Raffaelangelo Carbone, 35 anni di Delianuova (obbligo di firma)
20) Rocco Demarte, alias “Pitta, di Delianuova, 28 anni
21) Giovanni Guadagnino, 49 anni di Delianuova (obbligo di firma)
22) Domenico Italiano, alias “Ragioniere”, 41 anni di Delianuova (domiciliari)
23) Francesco Italiano, alias “U Pajuni” 31 anni di Delianuova
24) Angelo Lirosi, 58 anni di Delianuova (domiciliari)
25) Michele Lirosi, alias Mandali, 26 anni di Delianuova
26) Rocco Lirosi, 28 anni di Delianuova (domiciliari)
27) Alessio Rechichi, 26 anni, di Delianuova (domiciliari)
Queste invece le persone tratte in arresto in flagranza di reato:
1) GIORGI Sebastiano, da San Luca, di anni 20,
2) MAMMOLITI Maria, da San Luca, di anni 48
3) PIZZATA Antonio, da San Luca, di anni 24
4) PIZZATA Antonio, da San Luca, di anni 56
5) PIZZATA Domenico, da San Luca, di anni 20
6) PIZZATA Giuseppe, da San Luca, di anni 28,
7) SERGI Donato, alias “Arcangelo”, da San Luca, di anni 48,
8) ITALIANO Francesco, alias “U Pajuni”, da Delianuova, di anni 31,
9) LIROSI Rocco, da Delianuova, di anni 28,
10) SCOPELLITI Domenico, da Delianuova, di anni 23,
11) VIOLI Rocco, da Sinopoli, di anni 41,
12) VIOLI Francesco, da Sinopoli, di anni 38,
13) IARIA Massimo, da Delianuova, di anni 23,
14) MAMMONE Giuseppe, da Delianuova, di anni 31.
Nuova udienza al Tribunale di Vibo del processo “Romanzo criminale” contro i Patania di Stefanaconi. La genesi dell’inchiesta e i punti “controversi”
di GIUSEPPE BAGLIVO
I riscontri sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, il gruppo Patania, i contatti con gli altri clan ed alcune “divergenze” con le deposizioni di altri investigatori e con precedenti risultati investigativi. Questo in estrema sintesi quanto emerso oggi nel processo contro i Patania di Stefanaconi – nato dall’operazione antimafia “Romanzo criminale” – nel corso dell’esame in aula di Marco Califano, all’epoca dei fatti comandante del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Vibo Valentia. Rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo, il teste ha spiegato dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo, presieduto da Lucia Monaco (a latere i giudici Vincenza Papagno e Giovanna Taricco), la genesi dell’inchiesta e la contrapposizione dei Patania di Stefanaconi sia al clan dei Piscopisani sia all’altro gruppo di Stefanaconi che sarebbe nato nel 2007 attorno “alla figura di Emilio Antonio Bartolotta, da non confondere – ha spiegato il teste in aula – con gli altri Bartolotta alleati al vecchio clan dei Petrolo negli anni ’90 in faida contro i Bonavota di Sant’Onofrio e protagonisti della strage dell’Epifania nel ’91”.
Fortunato Patania
Il manifesto funebre del Comune per la morte violenta di Nato Patania. Come già altri investigatori dell’Arma ascoltati nelle precedenti udienze, anche il capitano Califano ha fatto riferimento al manifesto funebre del settembre 2011 con il quale “tutta l’amministrazione comunale di Stefanaconi ha partecipato al dolore – così è stato scritto – della famiglia Patania per la morte del caro Fortunato”. Un manifesto che colpì molto gli investigatori, in considerazione soprattutto del fatto che Fortunato Patania non era morto per cause naturali, bensì ucciso in un feroce agguato e nessuno dei suoi parenti (a differenza del Comune di Gerocarne dove negli scorsi anni ha ricoperto il ruolo di assessore Bruno Patania, uno dei figli di Fortunato) aveva mai ricoperto ruoli all’interno del Comune di Stefanaconi.
Pantaleone Mancuso
I rapporti con i Mancuso. Il teste ha poi fatto riferimento ai rapporti fra Saverio Patania (figlio del defunto Fortunato ed imputato nel processo “Romanzo criminale” insieme ai fratelli) ed il boss di Nicotera Marina Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”, che sarebbe stato definito da Saverio Patania nelle intercettazioni come il proprio “capo”, mentre nel corso degli anni si erano registrati diversi controlli del territorio ad opera dei carabinieri che avevano fermato più volte insieme nella stessa auto Fortunato Patania ed il boss di Limbadi Giuseppe Mancuso (cl. ’49), detto ‘Mbroghja” (primo cugino di “Scarpuni”), mentre altre frequentazioni si sarebbero registrate sin dagli anni ’80 fra Francesco Mancuso e Fortunato Patania.
Le “divergenze” fra le deposizioni del capitano Califano e quelle del capitano Migliavacca. Sulla conoscenza da parte degli investigatori del Nucleo investigativo dei carabinieri di Vibo del clan Patania prima dell’omicidio del boss Fortunato Patania si sono registrate oggi delle “divergenze” fra la deposizione del capitano Marco Califano e quella del capitano Giovanni Migliavacca, attualmente alla guida del Ros di Catanzaro ed in precedenza alla guida del Nucleo investigativo di Vibo prima della successione nel gennaio 2013 con il primo. Il capitano Califano ha infatti ricordato oggi in aula sia la circostanza che il pentito Gerardo D’Urzo di Sant’Onofrio (uno degli autori della strage dell’Epifania del ’91 che lasciò nella piazza principale del paese due morti e 11 feriti) sul finire degli anni ’90 aveva a lungo parlato di Fortunato Patania, e sia il fatto che le denunce per pascolo abusivo anteriori all’omicidio di Michele Mario Fiorillo del settembre 2011, unitamente ad altri elementi, portavano a ritenere l’esistenza del clan Patania come attivo in tutta la Vallata del Mesima, da Stefanaconi sino alla frazione Sant’Angelo di Gerocarne, ben quindi prima dello scoppio della faida con i Piscopisani ed il gruppo di Emilio Bartolotta.
Il capitano Giovanni Migliavacca, ascoltato dal Tribunale nell’udienza del 23 marzo scorso, aveva invece spiegato al Collegio che “sostanzialmente” si poteva dire che sino allo scoppio della faida i Patania “erano una famiglia non attenzionata da un punto di vista strettamente mafioso”, e che prima dell’omicidio di Michele Mario Fiorillo e il giorno dopo di Fortunato Patania gli stessi Patania “erano quasi sconosciuti nel panorama mafioso locale”.
Da ricordare, in ogni caso, che sia Fortunato Patania che altri suoi familiari erano stati interessati dall’operazione antimafia denominata “Corona”, scattata nel 1998 ad opera della Dda di Catanzaro e poi finita fra proscioglimenti e assoluzioni.
L’omicidio Penna, il comandante Cannizzaro e il sacerdote Santaguida. Secondo quanto riferito oggi in aula dal capitano Califano, sia l’allora parroco di Stefanaconi, Salvatore Santaguida, che l’allora comandante della Stazione dei carabinieri di Sant’Onofrio, Sebastiano Cannizzaro, si sarebbero dati da fare per recuperare il corpo di Michele Penna (in foto a sinistra), l’assicuratore e segretario dell’Udc di Stefanaconi scomparso per lupara bianca “e con un ruolo criminale di primo piano – ha raccontato il teste – a Stefanaconi”. Ad avviso dell’investigatore, però, diverse sarebbero state le motivazioni che avrebbero spinto prete e maresciallo ad impegnarsi nelle ricerche del corpo di Penna. Ragioni di carità cristiana per Santaguida che voleva dare una degna sepoltura a Penna per come insistentemente chiedevano i suoi genitori, avversione – secondo quanto riferito da Califano in aula – nei confronti dei clan Bonavota e Bartolotta (ritenuti coinvolti nell’omicidio di Penna) per quanto riguarda Cannizzaro.
Su tali vicende, quindi, il teste ha riferito delle ipotesi investigative formulate dal suo reparto. Ad avviso del comandante Califano, Michele Penna sarebbe stato legato al pregiudicato Antonino Lopreiato (Ninu i Murizzu), anche quest’ultimo poi ucciso in un agguato. Il teste ha così indicato l’informativa da lui redatta su tale ultimo fatto di sangue (poi confluita nell’operazione Amarcord) con il deferimento all’autorità giudiziaria dei mandanti e degli esecutori materiali del fatto di sangue. La tesi del reparto diretto dal capitano, sulla scorta delle dichiarazioni rese da Loredana Patania, ipotizzò che i figli di Fortunato Patania si sarebbero impegnati a trovare il cadavere di Michele Penna per fare un favore al sacerdote Santaguida poichè credevano che quest’ultimo era a sua volta legato al maresciallo Cannizzaro il quale con l’intercessione del sacerdote avrebbe lasciato immuni da future indagini i Patania.
Questa la tesi dei carabinieri del Nucleo investigativo di Vibo che però in alcuni passaggi si scontra con due dati oggettivi: l’ordinanza del gip distrettuale Di Girolamo che ha fortemente ridimensionato l’impianto accusatorio nei confronti di Salvatore Santaguida (tanto da respingere con un articolato ragionamento logico-giuridico la richiesta di arresto nei confronti del sacerdote), ed il fatto che nel provvedimento di fermo a carico di esecutori e mandanti dell’omicidio di Antonino Lopreiato era stato indicato – sulla scorta delle dichiarazioni di Loredana Patania – quale esecutore materiale del delitto Francesco Scrugli. Lo stesso Scrugli che però, al momento del fatto di sangue, si trovava detenuto in carcere. Circostanza, quest’ultima, che ha “costretto” la stessa Dda a “correggere” poi il provvedimento di fermo all’atto della richiesta di custodia cautelare per l’omicidio di Antonino Lopreiato.
Gli imputati. Ad essere accusati del reato di associazione mafiosa sono: Giuseppina Iacopetta, ritenuta al vertice della cosca dopo l’uccisione del marito, Fortunato Patania, freddato nel settembre 2011 durante la faida con i Piscopisani; i figli Salvatore, Saverio, Giuseppe, Nazzareno e Bruno Patania; Andrea Patania;Cosimo e Caterina Caglioti; Nicola Figliuzzi; Cristian Loielo; Alessandro Bartalotta; Francesco Lo Preiato; Ilya Krastev. L’ex maresciallo dei carabinieri, già alla guida della Stazione di Sant’Onofrio, Sebastiano Cannizzaro, è invece accusato di falso e concorso esterno in associazione mafiosa. Tale ultimo reato viene contestato anche a don Salvatore Santaguida, parroco di Stefanaconi.
In basso da sinistra verso destra: Giuseppe Patania, Bruno Patania, Andrea Patania, Cosimo Caglioti
A trasmettere gli atti alla Distrettuale di Catanzaro era stato il Tribunale di Vibo dopo la modifica del capo d’imputazione ad opera della Procura vibonese
Estorsione aggravata dal metodo mafioso. Questa l’accusa per la quale il gip Pietro Scuteri, in accoglimento di una richiesta avanzata dal pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo, ha rinviato a giudizio Salvatore Mancuso, 49 anni, di Limbadi (difeso dall’avvocato Francesco Sabatino, da un paio di anni residente a Giussano, in Lombardia. Era stato il Tribunale monocratico di Vibo Valentia, a restituire il 19 novembre scorso gli atti alla Procura di Vibo affinchè li trasmettesse per competenza alla Dda di Catanzaro.
Il pm Michele Sirgiovanni, nel novembre scorso aveva infatti chiesto al Tribunale la modifica del capo di imputazione nei confronti di Salvatore Mancuso, contestando pure le modalità mafiose nella commissione del reato e qualificandolo come estorsione anzichè furto.
L’originario capo di imputazione per il quale Mancuso si trovava sotto processo dinanzi al Tribunale monocratico di Vibo era quello di furto di beni esposti per necessità alla pubblica fede a Limbadi. In particolare, il furto riguarda 53 aste di perforazione, una punta per trivella ed un occhiello in ferro filettato. Si trattava di una contestazione emersa nell’ambito di un filone investigativo dell’inchiesta denominata “Ultimo Incanto” condotta sul campo dalla Squadra Mobile di Vibo Valentia, all’epoca diretta da Maurizio Lento e dal suo vice Emanuele Rodonò. Parte lesa nella vicenda giudiziaria che interessa Salvatore Mancuso, difeso dall’avvocato Francesco Sabatino, è l’imprenditore vibonese Salvatore Barbagallo, attuale testimone di giustizia. L’intera operazioe “Ultimo Incanto” della Squadra Mobile di Vibo era poi scattata, con il coordinamento della locale Procura, il 13 maggio 2010 contro un “sistema” di aste giudiziarie truccate ed irregolari. Il processo nei confronti di Salvatore Mancuso si aprirà il 25 maggio prossimo dinanzi al Tribunale collegiale.
Salvatore Mancuso
Il profilo. Salvatore Mancuso è figlio di Ciccio Mancuso, ritenuto il capo storico della “famiglia”, deceduto il 17 agosto 1997 per un male incurabile. Si tratta dello stesso Francesco, “Ciccio”, Mancuso, che nel 1983 si candidò alla carica di consigliere comunale nel Comune di Limbadi risultando il secondo degli eletti pur essendo all’epoca latitante. L’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, appresa la notizia, sciolse d’autorità quel Consiglio comunale subito dopo le elezioni impedendone l’insediamento. Si trattò del primo scioglimento per mafia in Italia di un Consiglio comunale, pur non esistendo all’epoca una legge sullo scioglimento per infiltrazioni mafiose degli enti locali.
Salvatore Mancuso, non è nuovo alle cronache giudiziarie. E’ stato infatti già condannato dal Tribunale di Monza per usura, reati legati agli stupefacenti e detenzione illegale di un consistente arsenale di armi da guerra rinvenuto in un box di Seregno. Il Tribunale di Monza aveva poi trasmesso gli atti alla Procura di Milano per procedere contro Mancuso in ordine al reato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, mentre la Dda di Catanzaro l’aveva tratto in arresto per due episodi di estorsione aggravata dalle modalità mafiosenell’ambito dell’operazione “Time to Time” scattata nel 2010. (g.b.)
Uomo-chiave nel clan degli zingari, è stato condotto già in una località protetta. Risponde, tra le altre cose, dell’omicidio del rampollo dei “Bella Bella”
C’è un nuovo boss della ‘ndrangheta che collabora con la giustizia. Viene fuori un altro pentito dalle cosche del Cosentino. Si tratta di Daniele Lamanna che si sarebbe già messo a disposizione della Dda di Catanzaro e del pm Pierpaolo Bruni. Si tratta di un uomo di assoluto rilievo, attualmente sotto processo perchè indiziato di essere stato l’autore dell’omicidio di Luca Bruni.
Le accuse. Lamanna è accusato di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione e, come chiarito, del delitto di mafia relativo alla scomparsa dell’ultimo rampollo dei “Bella bella”, ammazzato – per quanto appreso da altri collaboratori – per evitare che la vittima potesse organizzare un nuovo gruppo criminale in contrapposizione con quello degli “zingari” e degli “italiani”.
La latitanza. Quando venne emessa l’ordinanza di custodia cautelare si diede alla latitanza per quattro mesi e quando venne catturato a Trenta nel marzo dello scorso anno, rivendicò la sua estraneità all’uccisione di Luca Bruni verso il quale non aveva alcun rancore, aggiungendo che quel giorno si trovava da tutt’altra parte.
Il gruppo operava a Milano ed era formato da calabresi ritenuti vicini alla cosca di ‘ndrangheta Ruga-Loiero-Metastasio. Sequestrato anche un lingotto d’oro
I carabinieri del comando provinciale di Milano, nell’ambito dell’operazione “Mar Jonio“, hanno dato esecuzione a 6 ordinanze di custodia cautelare in carcere, emesse dal gip del tribunale del capoluogo lombardo, nei confronti di altrettanti pregiudicati, ritenuti responsabili di associazione finalizzata al traffico internazionale e allo spaccio di sostanze stupefacenti e vicini alla cosca della ‘ndrangheta Ruga-Loiero-Metastasio di Monasterace, provincia di Reggio Calabria).
Perquisizioni e accuse. I militari, operando contestualmente, hanno eseguito perquisizioni domiciliari nei confronti di altre 28 persone anche in Calabria, Lazio, Lombardia, Piemonte e Sicilia. Gli investigatori hanno documentato la movimentazione di ingentissimi capitali di provenienza illecita e, durante le perquisizioni, sono stati sequestrati 1.150.000 euro in contanti e un lingotto d’oro del peso di 1 chilogrammo.
Droga. Nel corso dell’inchiesta, i carabinieri hanno scoperto un laboratorio allestito a Sesto San Giovanni (Milano) adibito a taglio, confezionamento e lo stoccaggio di droga. Arrestato un corriere e sequestrati 180 chili di cocaina, e 112 chili di sostanza da taglio utilizzata per la lavorazione dello stupefacente: importato dal Brasile in sacchi contenenti colla per lavorazioni edilizie, veniva lavorato, smistato sul territorio nazionale e avviato anche in Germania e Olanda.
L’uomo, condannato per associazione mafiosa e all’ergastolo perchè mandante di vari omicidi, è cugino di Francesco Giampà “Il professore”
Un nuovo pentito fa tremare i clan della ‘ndrangheta lametina. E’ Pasquale Giampà, 52 anni, considerato il reggente dell’omonima cosca. “Mille lire”, così viene soprannominato, è cugino del capo storico del clan, Francesco Giampà, detto “Il professore”.
Prima di decidere la propria collaborazione con la giustizia, era sottoposto al regime di carcere duro e nei processi per le operazioni “Medusa” e “Perseo”, perchè considerato come uno dei componenti della cupola del clan. Condannato per associazione mafiosa deve scontare l’ergastolo poichè mandante di diversi omicidi nella guerra di mafia che ha insanguinato la Piana di Sant’Eufemia.
Il provvedimento del Tribunale di Reggio Calabria nei confronti di un imprenditore è stato eseguito dalla Guardia di Finanza ed interessa Gioia Tauro e la Campania
Beni per un valore di quasi 215 milioni di euro sono stati sequestrati dalla Guardia di Finanza d Reggio Calabria ad un imprenditore ritenuto contiguo al clan Piromalli di Gioia Tauro. n particolare, ad operare il sequestro sono stati i finanzieri del Nucleo speciale di polizia valutaria e del Servizio centrale I.C.O. di Roma che hanno eseguito, in Calabria e in Campania, un provvedimento emesso dalla Sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Reggio Calabria con il quale è stato disposto il sequestro di prevenzione di un patrimonio stimato in circa 215 milioni di euro nei confronti di un imprenditore contiguo alla cosca di ‘ndrangheta dei Piromalli, operante a Gioia Tauro. Dalle indagini sarebbe emersa l’esistenza di un indissolubile rapporto di sinergia economico-criminale tra l’mprenditore (di cui la Guardia di Finanza non ha reso note le generalità) e la cosca Piromalli, in quanto lo stesso si sarebbe prestato, volontariamente e consapevolmente, al perseguimento degli scopi imprenditoriali ed economici del clan creando e sviluppando così, nel tempo, solide cointeressenze economiche, accompagnate da ingenti investimenti commerciali nel territorio di Gioia Tauro.
A seguito di una mirata attività di indagine e di analisi economico-finanziarie, gli uomini della Guardia di Finanza hanno accertato una palese sproporzione tra l’ingente patrimonio individuato e i redditi dichiarati dalla famiglia del soggetto investigato, tale da non giustificarne la legittima provenienza. Complessivamente sono stati sequestrati il patrimonio aziendale e le quote sociali di 6 imprese, 85 unità immobiliari, 42 rapporti finanziari e denaro contante per quasi 700.000 euro, il tutto per un valore stimato pari a circa 215 milioni di euro. (red 2)
L’imprenditore è ritenuto dalla Guardia di Finanza. che ha agito su disposizione della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, contiguo al clan Piromalli
In esecuzione del decreto emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria è stato sequestrato ad Alfonso Annunziata e al suo nucleo familiare il seguente patrimonio:
1. Intero patrimonio aziendale della ditta individuale Annunziata Alfonso con sede legale in Gioia Tauro, via Nazionale nr. 111 e unità locale in Vibo Valentia, S.S. 18 – località Spoletino (Partita Iva: 00163750805);
2. Intero patrimonio aziendale della “ANNUNZIATA S.r.l.”, con sede legale in Gioia Tauro (RC), via Nazionale 111 s.n.c., e due unità locali in Gioia Tauro (RC), rispettivamente, in via Strada Statale 111 s.n.c. (località Calcò) e via Nazionale 111 s.n.c. (Parco Commerciale Annunziata) (Partita Iva 01356300804);
3. 26,67% delle quote societarie della “GEIM SERVICE S.r.l.”, con sede legale in Gioia Tauro (RC), via Napoli nr. 5 (Partita Iva 02194290801);
4. Intero patrimonio aziendale della “CENTRO PIÙ ANNUNZIATA DI ANNUNZIATA ALFONSO & C S.N.C.”, con sede legale in San Giuseppe Vesuviano (NA), via Scopali Palazzo Annunziata (Partita Iva 02588241212);
5. 6% delle quote societarie della “SIM S.p.A.”, con sede legale in Gioia Tauro (RC), via Aspromonte nr. 8 (Partita Iva 02152090805);
5. intero patrimonio aziendale della “ANNUNZIATA GROUP S.r.l.”, con sede legale in Gioia Tauro (RC), via Nazionale 111 nr. 294, e due unità locali in Gioia Tauro (RC), rispettivamente, in Vibo Valentia (VV), via Nazionale 18 s.n.c. e in Feroleto Antico (CZ), località Garrube s.n.c. (Partita Iva 02787710801);
6. 85 beni immobili, tra ville, appartamenti, locali commerciali e terreni siti nelle province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Napoli;
7. 42 rapporti finanziari personali o aziendali; denaro contante per un importo pari a quasi € 700.000,00.
Il personale del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, del Nucleo Speciale Polizia valutaria e del Servizio centrale I.C.O. di Roma hanno sottoposto a sequestro di prevenzione, nei confronti di Alfonso Annunziata e di 4 componenti del suo nucleo familiare, l’intero patrimonio aziendale di n. 4 imprese e le quote di n. 2 società di capitali, n. 85 unità immobiliari, n. 42 rapporti finanziari personali e aziendali nonché denaro contante per quasi 700.000 euro, il tutto per un valore stimato pari a circa 215 milioni di euro.
Il patrimonio sottratto comprende le quote sociali di 6 imprese, 85 unita’ immobiliari, 42 rapporti finanziari e denaro contante per quasi 700.000 euro.
Beni per un valore complessivo di circa 215 milioni di euro sono stati sequestrati dai finanzieri del comando provinciale di Reggio Calabria, del Nucleo Speciale Polizia Valutaria e del Servizio Centrale I.C.O. di Roma. Il destinatario della misura e’ un imprenditore, Alfonso Annunziata, ritenuto contiguo alla cosca di ‘ndrangheta dei Piromalli, operante sul territorio della provincia reggina. Il patrimonio sottratto comprende le quote sociali di 6 imprese, 85 unita’ immobiliari, 42 rapporti finanziari e denaro contante per quasi 700.000 euro. I beni sono stati sequestrati in Calabria e in Campania in base a un provvedimento emesso dalla Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria. Secondo gli inquirenti, dalle indagini sarebbe emersa l’esistenza “di un indissolubile rapporto di sinergia economico-criminale” tra l’imprenditore e la cosca Piromalli. Annunziata si sarebbe prestato “volontariamente e consapevolmente, al perseguimento degli scopi imprenditoriali ed economici della predetta consorteria criminale, cosi’ creando e sviluppando, nel tempo, solide cointeressenze economiche, accompagnate da ingenti investimenti commerciali nel territorio di Gioia Tauro”. Annunziata era stato arrestato nel corso dell’operazione “Bucefalo” nel mese di marzo 2015. Il processo in cui e’ imputato si sta celebrando a Palmi (Rc). (AGI)
Articolata requisitoria del pm della Dda, Camillo Falvo, dinanzi al Tribunale di Vibo per un troncone della faida fra i Patania di Stefanaconi (alleati dei Mancuso) ed i Piscopisani
Diciotto anni di reclusione. A tanto ammonta la richiesta di pena finale formulata dal pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo, nei confronti di Nunzio Manuel Callà, 30 anni, di Nicotera, accusato di concorso nel tentato omicidio di Francesco Scrugli, avvenuto nel febbraio del 2012 a Vibo Valentia nel quartiere Sant’Aloe a pochi metri dalla Questura.
Nunzio Manuel Callà
All’imputato viene contestato anche il porto abusivo dell’arma da guerra (una carabina) che sarebbe stata usata da alcuni sicari stranieri (Vasvi Beluli ed Arben Ibrahimi, poi passati fra le fila dei collaboratori di giustizia con Beluli che ha riconosciuto in foto Callà) assoldati dal clan Patania di Stefanaconi per attentare alla vita di Francesco Scrugli, ritenuto elemento di spicco del clan dei “Piscopisani” dopo il suo distacco dal clan Lo Bianco di cui avrebbe originariamente fatto parte unitamente al cognato Andrea Mantella. Le contestazioni nei confronti di Nunzio Manuel Callà, considerato dagli investigatori vicino al boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni” (alleato dei Patania nella “guerra” contro i “Piscopisani”), sono aggravate dalle finalità mafiose.
Francesco Scrugli
Gli elementi di prova. Molteplici gli elementi di prova forniti dal pm antimafia Camillo Falvo al Tribunale collegiale di Vibo Valentia (presidente Vincenza Papagno, giudici a latere Giovanna Taricco e Graziamaria Monaco). Ad iniziare dai legami – non secondari per il tipo di vincoli che generano specie nel meridione – fra l’imputato Nunzio Manuel Callà ed il boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”. Legami talmente stretti da consentire a Callà – per come evidenziato in aula dal pm nel corso della requisitoria – di fare da padrino di battesimo a Salvatore Mancuso, figlio del boss “Scarpuni”, nonchè di accompagnare in ospedale Santa Buccafusca (moglie del boss Mancuso) in ospedale in occasione del suicidio della donna attraverso l’ingestione di acido muriatico. Nel ripercorrere la genesi dell’intera inchiesta che ha portato sul banco degli imputati Nunzio Manuel Callà, e quindi nel ripercorrere le varie fasi della guerra di mafia che ha contrapposto il clan Patania di Stefanaconi (appoggiato “dietro le quinte” dal boss Pantaleone Mancuso) sia ai Piscopisani (Battaglia-Fiorillo alleati ai Tripodi di Portosalvo) e sia al clan che sarebbe guidato da Antonio Emilio Bartolotta di Stefanaconi, il pm Camillo Falvo ha elencato e collegato tutti i fatti di sangue verificatisi nel corso della faida scoppiata con l’omicidio dell’agricoltore Michele Mario Fiorillo vendicato il giorno successivo con l’uccisione del boss Fortunato Patania.
Pantaleone Mancuso
Intercettazioni, agganci delle celle telefoniche e convergenti dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia (da Vasvi Beluli a Arben Ibrahimi, da Loredana Patania a Daniele Bono sino a Raffaele Moscato e Giuseppe Giampà) avrebbero consentito agli inquirenti di ricostruire il ruolo di Callà nel trasporto della carabina, usata per il tentato omicidio di Scrugli, da un terreno di Nicotera Marina, confiscato ai Mancuso ma a loro ugualmente in uso, sino allo svincolo autostradale delle Serre, e da qui alla volta di Stefanaconi e poi a Vibo in un appartamento delle case popolari del quartiere Sant’Aloe da dove – dalla finestra del bagno – è stato aperto il fuoco contro Scrugli rimasto nell’occasione ferito al collo.
Vasvi Beluli
Il doppio movente per l’eliminazione di Scrugli. Francesco Scrugli, poi ucciso a Vibo Marina nel marzo 2012 – nel febbraio precedente è stato quindi vittima di un tentato omicidio a Vibo. Da un lato il desiderio dei figli di Fortunato Patania di vendicare la morte del padre, per la quale ritenevano responsabile Francesco Scrugli (ormai passato dal clan Lo Bianco al clan dei Piscopisani), dall’altro lato la volontà del boss Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, di eliminare da Vibo un personaggio “scomodo” che, unitamente al cognato Andrea Mantella, non aveva avuto alcun timore di sfidare apertamente i Mancuso stringendo alleanze con tutti i clan ostili al “casato” di ‘ndrangheta di Limbadi e Nicotera: dai Piscopisani ai Tripodi di Portosalvo, dai Bonavota di Sant’Onofrio agli Emanuele di Gerocarne. Questi i motivi alla base della decisione di sopprimere Francesco Scrugli, elemento che da solo, ed in alleanza con i Piscopisani, sarebbe riuscito a tenere lontano da Vibo i Mancuso. (g.b.)
Regge l’impalcatura accusatoria del pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo, nel troncone della faida fra i Patania di Stefanaconi (alleati dei Mancuso) ed i Piscopisani
di GIUSEPPE BAGLIVO
Sedici anni di reclusione. A tanto ammonta la condanna emessa dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia nei confronti di Nunzio Manuel Callà, 30 anni, di Nicotera, accusato di concorso nel tentato omicidio di Francesco Scrugli, avvenuto nel febbraio del 2012 a Vibo Valentia nel quartiere Sant’Aloe a pochi metri dalla Questura.
Nunzio Manuel Callà
Regge dunque pienamente l’impianto accusatorio sostenuto in aula dal pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo, che al termine della requisitoria aveva chiesto al Tribunale (Vincenza Papagno presidente, giudici a latere Giovanna Taricco e Graziamaria Monaco) 18 anni di reclusione.
All’imputato, difeso dagli avvocati Antonio Porcelli e Francesco Sabatino, veniva contestato anche il porto abusivo dell’arma da guerra (una carabina) che sarebbe stata usata da alcuni sicari stranieri (Vasvi Beluli ed Arben Ibrahimi, poi passati fra le fila dei collaboratori di giustizia con Beluli che ha riconosciuto in foto Callà) assoldati dal clan Patania di Stefanaconi per attentare alla vita di Francesco Scrugli, ritenuto elemento di spicco del clan dei “Piscopisani” dopo il suo distacco dal clan Lo Bianco di cui avrebbe originariamente fatto parte unitamente al cognato Andrea Mantella. Le contestazioni nei confronti di Nunzio Manuel Callà, considerato dagli investigatori vicino al boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni” (alleato dei Patania nella “guerra” contro i “Piscopisani”), sono aggravate dalle finalità mafiose.
Francesco Scrugli
Gli elementi di prova. Molteplici gli elementi di prova forniti dal pm antimafia Camillo Falvo al Tribunale collegiale di Vibo Valentia (presidente Vincenza Papagno, giudici a latere Giovanna Taricco e Graziamaria Monaco). Ad iniziare dai legami – non secondari per il tipo di vincoli che generano specie nel meridione – fra l’imputato Nunzio Manuel Callà ed il boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”. Legami talmente stretti da consentire a Callà – per come evidenziato in aula dal pm nel corso della requisitoria – di fare da padrino di battesimo a Salvatore Mancuso, figlio del boss “Scarpuni”, nonchè di accompagnare in ospedale Santa Buccafusca (moglie del boss Mancuso) in ospedale in occasione del suicidio della donna attraverso l’ingestione di acido muriatico. Nel ripercorrere la genesi dell’intera inchiesta che ha portato sul banco degli imputati Nunzio Manuel Callà, e quindi nel ripercorrere le varie fasi della guerra di mafia che ha contrapposto il clan Patania di Stefanaconi (appoggiato “dietro le quinte” dal boss Pantaleone Mancuso) sia ai Piscopisani (Battaglia-Fiorillo alleati ai Tripodi di Portosalvo) e sia al clan che sarebbe guidato da Antonio Emilio Bartolotta di Stefanaconi, il pm Camillo Falvo ha elencato e collegato tutti i fatti di sangue verificatisi nel corso della faida scoppiata con l’omicidio dell’agricoltore Michele Mario Fiorillo vendicato il giorno successivo con l’uccisione del boss Fortunato Patania.
Pantaleone Mancuso
Intercettazioni, agganci delle celle telefoniche e convergenti dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia (da Vasvi Beluli a Arben Ibrahimi, da Loredana Patania a Daniele Bono sino a Raffaele Moscato e Giuseppe Giampà) avrebbero consentito agli inquirenti di ricostruire il ruolo di Callà nel trasporto della carabina, usata per il tentato omicidio di Scrugli, da un terreno di Nicotera Marina, confiscato ai Mancuso ma a loro ugualmente in uso, sino allo svincolo autostradale delle Serre, e da qui alla volta di Stefanaconi e poi a Vibo in un appartamento delle case popolari del quartiere Sant’Aloe da dove – dalla finestra del bagno – è stato aperto il fuoco contro Scrugli rimasto nell’occasione ferito al collo.
Vasvi Beluli
Il doppio movente per l’eliminazione di Scrugli. Francesco Scrugli, poi ucciso a Vibo Marina nel marzo 2012 – nel febbraio precedente è stato quindi vittima di un tentato omicidio a Vibo. Da un lato il desiderio dei figli di Fortunato Patania di vendicare la morte del padre, per la quale ritenevano responsabile Francesco Scrugli (ormai passato dal clan Lo Bianco al clan dei Piscopisani), dall’altro lato la volontà del boss Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, di eliminare da Vibo un personaggio “scomodo” che, unitamente al cognato Andrea Mantella, non aveva avuto alcun timore di sfidare apertamente i Mancuso stringendo alleanze con tutti i clan ostili al “casato” di ‘ndrangheta di Limbadi e Nicotera: dai Piscopisani ai Tripodi di Portosalvo, dai Bonavota di Sant’Onofrio agli Emanuele di Gerocarne. Questi i motivi alla base della decisione di sopprimere Francesco Scrugli, elemento che da solo, ed in alleanza con i Piscopisani, sarebbe riuscito a tenere lontano da Vibo i Mancuso.
Cinque invece le condanne definitive per ricettazione ed armi nei confronti degli esponenti dei clan di Platì trapiantati a Corsico e Buccinasco, ribattezzate “la Platì del Nord”
La sentenza della quinta sezione penale della Suprema Corte fa seguito ad un precedente annullamento, da parte della Cassazione, di buona parte delle condanne che erano state inflitte agli imputati dalla Corte d’Appello di Milano che li aveva ritenuti responsabili di aver costituito una associazione di stampo mafioso che, facendo leva sulla decennale fama criminale acquisita dal sodalizio dei Barbaro/Papalia in territorio lombardo, esercitava il completo controllo sugli appalti edilizi nell’hinterland milanese, ed in particolare, nei comuni di Corsico e Buccinasco, considerati “la Platì del nord”.
In particolare, con la prima sentenza, la Corte milanese aveva condannato per associazione mafiosa, e reati connessi, Papalia Domenico, Barbaro Domenico, Barbaro Francesco, Barbaro Salvatore, Barbaro Rosario e Perre Antonio.
La pronuncia, a seguito dei ricorsi proposti dalle difese, era stata in parte (per il solo art. 416 bis, associazione mafiosa) annullata dalla Prima sezione penale della Corte di Cassazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano che in sede di rinvio ha completamente assolto Domenico Papalia, assolvendo anche Francesco Barbaro e Antonio Perre dal solo reato di cui all’art. 416 bis, confermando nel resto.
Avverso quest’ultima sentenza, è stato proposto ricorso per Cassazione sia dalla Procura Generale milanese, per le tre assoluzioni, sia dalle difese degli imputati che hanno riportato condanna per i residui reati di possesso e ricettazione di armi (Domenico, Rosario, Salvatore e Francesco Barbaro, rispettivamente a 6 anni e 6 mesi, 2 anni, 4 anni, e 4 anni e sei mesi di reclusione; Antonio Perre a 5 anni).
Con la pronuncia odierna, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore generale, confermando le pronunce assolutoriedal reato di associazione mafiosaper Domenico Papalia, che risulta completamente scagionato (difeso dall’avvocato Francesco Lojacono), per Francesco Barbaro e Antonio Perre (difesi rispettivamente dagli avvocati Renato Russo e Amedeo Rizza), ed ha rigettato i ricorsi degli altri imputati, le cui condanne divengono definitive.
Colpiti clan Accorinti di Briatico, La Rosa di Tropea e Il Grande di Parghelia. Politici arrestati e indagati. Coinvolto anche il clan Mancuso
Dalle prime luci dell’alba è in corso nelle province di Vibo Valentia, Cosenza, Como e Monza una vasta operazione antimafia delle Squadre Mobili di Vibo e Catanzaro e del servizio centrale della polizia di Stato, carabinieri e Ron Inv. di Vibo Valentia e della Compagnia di Tropea, oltre ai militari del Gico della Guardia di Finanza di Catanzaro. L’operazione è denominata “Costa Pulita”. Si tratta di un fermo di indiziato di delitto emesso dalla Dda di Catanzaro nei confronti di 23 persone accusate a vario titolo di associazione mafiosa, estorsioni, intestazione fittizia di beni, detenzione di armi e stupefacenti.
L’operazione è coordinata dai pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni, con il supporto del procuratore della Dda, Giovanni Bombardieri. Le indagini, avviate nei primi mesi del 2013 interessano il clan Accorinti di Briatico, La Rosa di Tropea e Il Grande di Parghelia. Colpito anche il clan Mancuso a cui tali clan sarebbero legati.
Cosmo Michele Mancuso
Fra i fermati ci sono il boss di Limbadi Cosmo Michele Mancuso, Salvatore Muzzopappa di Nicotera (cognato del boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”), i fratelli Davide e Federico Surace di Spilinga, Giovanni Rizzo (cl. ’82) di Nicotera.
Gli altri arrestati: Antonino Accorinti di Briatico, indicato come a capo dell’omonimo clan; Antonio Accorinti, figlio di Antonino; Francesco Giuseppe, detto Pino, Bonavita, ritenuto al vertice dell’omonimo clan alleato con gli Accorinti; Leonardo Melluso di Briatico ed i figli Emanuele e Simone Melluso; Nazzareno Colace di Portosalvo; Giuseppe Evalto; Giuseppe Granato di Briatico; Adriano Greco di Briatico; Ferdinando e Carmine Il Grande di Parghelia; Gerardo La Rosa di Tropea; Giancarlo Loiacono di Zambrone; Francesco Marchese (cl. ’86) di Briatico; Pasquale Prossomariti; Salvatore Prostamo (cl. ’76) di Briatico; Carlo Russo di Zambrone.
Pino Bonavita
A piede libero sono indagate 53 persone fra cui politici di spicco di Briatico e Vibo Valentia.
L’indagine colpisce anche politici locali di Briatico e Parghelia. Numerose le perquisizioni. Documentate anche ritorsioni contro il giornalista Pietro Comito che aveva ricevuto lettere minatorie per aver scritto su Calabria Ora sui misfatti al Comune di Briatico.
Sequestrati beni per 70 milioni di euro, fra cui 100 immobili, quote societarie e rapporti bancari, due villaggi turistici, tre compagnie di navigazione e altrettante motonavi per le isole Eolie.
Conferenza stampa alle 11 in Prefettura a Catanzaro.
Sono accusate a vario titolo di associazione mafiosa, estorsioni, intestazione fittizia di beni, detenzione di armi e stupefacenti le 23 persone fermate all’alba di oggi nell’ambito dell’inchiesta condotta dalla Dda di Catanzaro e denominata “Costa pulita”.
L’intercettazione. Nel corso dell’attività, supportata da intercettazioni telefoniche, ambientali e video riprese, sono state sequestrate diverse armi da fuoco e, nel 2014, sono stati tratti in arresto, in flagranza di reato, alcuni elementi di spicco delle locali cosche, in procinto di porre in essere un attentato mediante l’utilizzo di un potente ordigno esplosivo nell’ambito della cosiddetta faida delle “Preserre vibonesi”. In particolare nelle immagini vi è uno stralcio dell’intercettazione ambientale all’interno del bar “Tony” di Nicotera in cui si vedono parlare il boss Panteleone Mancuso, alias Scarpuni, Rinaldo Loielo e Filippo Pagano.
Indagati eccellenti nell’inchiesta della Dda. Coinvolti anche l’ex sindaco di Briatico e l’ex vice sindaco di Parghelia, rispettivamente Francesco Prestia e Francesco Crigna
Ci sono anche l’attuale sindaco di Briatico e presidente della provincia di Vibo Valentia, Andrea Niglia, l’ex sindaco di Briatico Francesco Prestia e l’ex assessore Domenico Marzano ed il vice sindaco di Parghelia Francesco Crigna fra gli indagati a piede libero nell’operazione antimafia “Costa Pulita”.
Concorso in associazione mafiosa. I fatti oggetto delle contestazioni – che ad avviso della Dda configurano il reato di concorso in associazione mafiosa – fanno riferimento all’arco temporale della passata consiliatura del Comune di Briatico (amministrazione Prestia) conclusasi con lo scioglimento degli organi elettivi comunali per infiltrazioni mafiose e con una proposta di incandidabilità ancora pendente dopo un recente annullamento con rinvio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione civile) ad opera della Cassazione. Fra gli indagati a piede libero, anche l’ex consigliere comunale di centrodestra di Vibo Valentia (candidato alle ultime elezioni comunali con il centrosinistra, ma non eletto), Giancarlo Giannini. Ai politici vengono contestati rapporti di vario tipo con i clan. Legami che, ad avviso della Dda, non avrebbero fatto altro che rafforzare il potere delle cosche in seno alle amministrazioni locali.
A Parghelia. Tra i soggetti con responsabilità pubbliche sottoposti ad indagini, è emersa la figura dell’ex vice sindaco del Comune di Parghelia, Francesco Crigna, classe ’70, in stretto contatto con esponenti della famiglia Il Grande, referenti, in quel comune, della potente cosca Mancuso.
Gli inquirenti avrebbero accertato che le imprese edili e di movimento terra facenti capo alla famiglia Il Grande, dopo l’alluvione che ha colpito il piccolo centro del Vibonese nel Febbraio-Marzo 2011 sono state affidatarie, in via quasi esclusiva, di una serie di lavori per il ripristino di strade e dell’alveo di torrenti, spesso indebitamente assegnati con una procedura di “somma urgenza” che permetteva alla discrezionalità di quel Comune la scelta della ditta cui assegnare i lavori. Nel corso delle indagini è anche emerso che Crigna avrebbe falsamente attestato, in favore di un componente della famiglia Il Grande, il possesso dei requisiti necessari alla assegnazione di un alloggio da parte dell’Aterp di Vibo. Secondo i magistrati “Le condotte materiali e procedimentali a favore della famiglia Il Grande, due membri della quale sono stati colpiti dal l’odierno provvedimento, trovavano come contropartita l’impegno a reperire voti a favore dell’amministratore pubblico e di altri suoi alleati politici in occasione di consultazioni elettorali”.