Esponente di primo piano della ‘ndrangheta cosentina sparito nel nulla dopo il verdetto emesso dalla Cassazione per un delitto avvenuto nel 1999
Walter Gianluca Marsico, esponente di primo piano della cosca della ‘ndrangheta dei Lanzino di Cosenza, da questa mattina è ufficialmente irreperibile. I carabinieri che dovevano eseguire la sentenza a 30 anni di carcere emessa il 20 aprile scorso dalla Cassazione non lo hanno trovato nella sua abitazione.
Le ricerche sono già iniziate. La Corte di Cassazione aveva confermato la condanna a 30 anni per l’omicidio di Vittorio Marchio avvenuto nel 1999. Marsico viene considerato dagli inquirenti un personaggio centrale nello scacchiere delle cosche cosentine, a lui, secondo quanto raccontato da alcuni collaboratori di giustizia, sarebbe stata affidata la gestione dell’usura a Cosenza, a seguito del patto siglato nel carcere di Catanzaro tra le cosche facenti capo a Francesco Perna e Gianfranco Ruà. L’imputato si trovava in libertà, anche se la Dda e la Procura generale avevano chiesto alla Corte d’Assise d’appello di Catanzaro di ripristinare la misura cautelare in attesa della pronuncia della Cassazione. L’istanza era, però, stata rigettata. (ANSA)
Il racconto del pentito Raffaele Moscato su quello che viene indicato come l’attuale numero uno del casato mafioso di Limbadi e reggente dell’intero clan per volontà del fratello Luigi
di GIUSEPPE BAGLIVO
Cosmo Michele Mancuso
“Soggetto con il ruolo di promotore, direttore ed organizzatore dell’omonima associazione mafiosa denominata cosca Mancuso, a cui spetta il potere di decidere il compimento delle azioni delittuose della cosca e di gestire il controllo del territorio, riconosciuto come tale dagli altri ed al quale i sodali si rapportano per ricevere ordini e direttive”. Questa la contestazione (associazione mafiosa), che dà anche il profilo, mossa dai pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni, mossa a Cosmo Michele Mancuso (cl. ’49), il boss dell’omonimo clan di Limbadi che negli ultimi anni – “complice” anche l’assenza del fratello Luigi (cl. ’54) scarcerato nel 2012 dopo 19 anni ininterrotti di detenzione (era stato condannato nel processo nato dall’operazione “Tirreno” della Dda di Reggio Calabria) – è salito al vertice dell’intero clan, favorito anche dalle carcerazioni dei fratelli Antonio (cl. 38), Giovanni (cl. ’41) e Pantaleone (cl. ’47, detto “Vetrinetta” e deceduto a settembre) arrestati nell’inchiesta “Black money” del marzo 2013. Il ruolo di spicco di Cosmo Michele Mancuso in seno all’omonimo clan egemone nel Vibonese era già stato riconosciuto in via definitiva con la sentenza nata dall’operazione “Dinasty”, ma il profilo più recente del boss lo si ricava da altre emergenze investigative discoverate ora con il fermo dell’operazione “Costa pulita” e che svelano un potere assoluto del boss anche sul territorio di Parghelia gestito dal locale clan degli Il Grande.
Carmine Il Grande
Proprio gli esponenti della famiglia anagrafica Il Grande di Parghelia, ad avviso della Dda, si sarebbero rapportati con Cosmo Mancuso, facendogli recapitare assegni, bestiame, e rendendolo partecipe delle decisioni riguardanti l’attività criminale della famiglia Il Grande. Gli stessi Il Grande, del resto, hanno anche partecipato – per come puntualmente ricostruito dagli investigatori – al matrimonio del figlio di Cosmo Mancuso detto Michele.
Cosmo Michele Mancuso si sarebbe quindi speso, nell’ambito della cosca, affinché venisse risparmiata la vita a Carmine Il Grande, detto “Melo”, per effetto di contrasti avuti all’interno della cosca Pantaleone Mancuso detto “Scarpuni”.
Raffaele Moscato
Il pentito Moscato su Cosmo Michele Mancuso. Il profilo più recente su Cosmo Michele Mancuso, e l’attualità del suo inserimento ai massimi livelli criminali, è stato tuttavia da ultimo illustrato dal collaboratore di giustizia Raffaele Moscato. Lo stesso, oltre a ricostruire parte della storia criminale del boss, ha affermato di aver appreso, in ambito criminale, che “il capo indiscusso della famiglia Mancuso, ovvero Luigi, nel momento in cui si è allontanato volontariamente sottraendosi alla misura della sorveglianza speciale, avrebbe lasciato proprio a Cosmo Mancuso per un periodo di cinque anni le redini dell’associazione criminale”.
Questi i passaggi principali delle dichiarazioni del collaboratore Raffaele Moscato così come riportate nel decreto di fermo dell’operazione “Costa pulita”.
Nicola Tripodi
“Originariamente la parte dei Mancuso di Michele Cosma detto “Michelina” era molto vicina e legata ai Tripodi di Porto Salvo e Mantino di Vibo Marina, dello stesso gruppo faceva parte anche mio padre – spiega Raffaele Moscato -. Successivamente, intorno al 2005-2006, o meglio all’epoca dell’operazione detta Dynasty, c’è stata la rottura per soldi e per favori non scambiati Questo lo so perchè il giorno in cui ci sono stati gli arresti, Fortuna Davide doveva accompagnare lo zio Mantino Fortunato da Mancuso Michele Cosmo per farli riappacificare. Infatti Mantino Fortunato è il padrino del figlio di Mancuso Michele Cosmo e Tripodi Nicola è il padrino della figlia dello stesso, insomma erano uniti da questi “Sangiovanni”. Quella mattina non fu possibile l’incontro appunto per l’arresto dei Mancuso”.
Così continua il racconto Raffaele Moscato: “Prima della morte di Palumbo Michele c’era stata la riappacificazione tra i Mancuso e i Tripodi: so infatti che i Tripodi avevano avvicinato Giuseppe Mancuso, figlio di Michele Cosmo, che in quel periodo era spesso a Vibo Marina in quanto rappresentate di medicinali per le farmacie.La pace fu fatta e a dimostrazione di ciò c’è stata la partecipazione di tutti i Tripodi con le rispettive famiglie al matrimonio di Mancuso Giuseppe figlio di Michele Cosmo”.
Salvatore Tripodi
Ed ancora: “Posso riferire – spiega il collaboratore Raffaele Moscato – in modo certo che i contrasti tra Cosmo Michele Mancuso e Nicola Tripodi sono certamente anteriori al 1990-1991, poiché il 22 marzo 2012 a casa di Salvatore Tripodi ho avuto modo di vedere un filmino in cui veniva immortalato mio padre e dove Michele Cosmo Mancuso aveva in braccio il figlio piccolo Michele”.
Secondo Moscato, infine, gli imprenditori nel ramo dell’abbigliamento Artusa “hanno il “rapporto” con Cosmo Michele Mancuso e a lui pagano la mazzetta, anche se, nonostante ciò, hanno subito molti danneggiamenti. Dopo quell’episodio è venuto a parlare con me il fratello più grande, quello che non lavora al negozio con loro”.
Nel decreto di fermo gli inquirenti annotano che Mario Artusa (non indagato nell’operazione “Costa pulita”) è stato sottoposto a controllo di polizia in data “04.07.2003 alle ore 14.43.00 presso la zona partenze dell’aeroporto di Milano Linate unitamente a Mancuso Cosmo, nato a Limbadi il 25.08.1949; ed in data in data 27.09.2012 alle ore 16.58.00 in contrada Gagliardi di Limbadi (VV) unitamente allo stesso Mancuso Cosmo ed a Lo Preiato Giuseppe nato a Maierato (VV) il 13.10.1951”, quest’ultimo indagato nell’operazione “Costa pulita”.
Con condanne fino a 15 anni si è concluso a Bologna il processo in rito abbreviato di ‘Aemilia’, 71 imputati tra cui molti punti di riferimento della ‘ndrangheta emiliana legata alla cosca Grande Aracri di Cutro, in provincia di Crotone, nel mirino della Dda di Bologna. Nell’aula a porte chiuse il gup, Francesca Zavaglia, ha letto la sentenza dopo 7 ore di camera di consiglio. Abbassate in generale le richieste dei pm.
Nicolino Grande Aracri
Non luogo a procedere per Giovanni Paolo Bernini, ex-assessore del Pdl della giunta Vignali e assoluzione per Giuseppe Pagliani, capogruppo per Forza Italia in Consiglio Comunale a Reggio Emilia e a Domenico Grande Aracri nell’ambito del processo Aemilia, sulla ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. Condanne invece per Alfonso Diletto a 14 anni, il pentito Giuseppe Giglio a 12 anni e 6 mesi, Antonio Gualtieri e Francesco Lamanna a 12 anni, il giornalista Marco Gibertini a 9 anni e 4 mesi, Nicolino Grande Aracri 6 anni e 8 mesi, il poliziotto Cianflone a 8 anni e 6 mesi, l’ex autista del questore Savi, Domenico Mesiano a 8 anni e 6 mesi.
Dura la condanna inflitta alla presunta consulente dei boss, la bolognese Roberta Tattini, 42 anni, (assolto invece il marito): otto anni e otto mesi. Era accusata di aver gestito gli affari del clan Grande Aracri.
Nel dettaglio, per la Procura la Tattini avrebbe fatto da intermediario in una trattativa riguardante denaro sporco fra il clan e altri appartamenti alla criminalità operante fra la Costa Azzurra e la Liguria. La stessa avrebbe inoltre curato, secondo l’accusa, un investimento nell’energia eolica a Cutro e proposto al braccio destro del boss la partecipazione a un progetto per costruire un impianto per la produzione di insulina in Calabria. Infine, avrebbe aiutato il boss Nicolino Grande Aracri ad acquisire beni provenienti dal fallimento di una società di Verona. Nel marzo 2012, l’incontro con il boss nel suo studio. Boss dalla Tattini poi esaltato al telefono con un amico:”Il boss, il sanguinario. Un grande onore incontrarlo”. Fulvio Stefanelli, marito della Tattini, è stato invece assolto.
Sono stati rigettati due patteggiamenti per Francesco Falbo e Salvatore Ruggiero. Assolti Michele Colacino (erano stati chiesti 12 anni) e Floro Vito Selvino (la richiesta era di 12 anni). Per Giulio Gerrini, condanna di 2 anni e 4 mesi.
L’ex autista del questore, Domenico Mesiano, è stato condannato a 8 anni e 6 mesi.
In prescrizione la posizione di Giovanni Paolo Bernini, ex assessore Parma. Un anno e otto mesi per Antonio Muto. Quattordici anni per Antonio Silipo.
Assolto l’avvocato Alessandro Palermo. Quattro anni e 10 mesi a Patrizia Patricelli, moglie di Giovanni Vecchi della Save Group. Per l’ex patron della Save Group una pena di 4 anni e 10 mesi. Condanna per 10 anni per Giuseppe Richichi e a 15 anni per Nicolino Sarcone.
Nove anni e 8 mesi, invece, per Roberto Turrà. Antonio Gualtieri è stato condannato a 12 anni.
Riconosciuti alla Regione danni per 600 mila euro. Cento mila euro, invece, per la Provincia di Reggio.
Il racconto del pentito Raffaele Moscato sulle due “famiglie” ed i loro legami con il “Locale” di Zungri, il clan dei Piscopisani ed il gruppo dei Tripodi di Porto Salvo
di GIUSEPPE BAGLIVO
Antonino Accorinti
Sono piuttosto vaghe le conoscenze del collaboratore di giustizia Raffaele Moscato, killer del clan dei Piscopisani, sulla figura di Antonino Accorinti, ritenuto il capo dell’omonimo clan di Briatico. In ogni caso, il pentito Moscato conferma il “ forte impegno imprenditoriale dello stesso Accorinti – sottolineano i pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni – nel settore del turismo, come ampiamente dimostrato nel provvedimento quando si evidenzia la fitta rete di società e prestanome di cui Accorinti si avvale nel fiorente business delle crociere per le Isole Eolie e nella conduzione di attività ricettive sulla costa calabrese quale, ad esempio, la gestione del villaggio Green Garden in Briatico”.
Anche Raffaele Moscato (in foto a sinistra), a tal proposito, spiega ai magistrati di essere a conoscenza del fatto che Antonino, detto Nino, Accorinti, “ha nella sua disponibilità un’imbarcazione con la quale organizza dei viaggi verso le isole Eolie e anche un villaggio turistico a Briatico e un lido vicino la torretta. So inoltre Nino Accorinti ha una figlia di nome Greta ed un figlio che aveva nella sua disponibilità un’Audi Q7. Conosco anche il genero che con dei pulmini andava a prendere le persone nei vari villaggi, a lui in più circostanze ho fornito della cocaina. Non ricordo come si chiama ma saprei riconoscerlo in foto”.
Leonardo Melluso
Sui Melluso di Briatico, ritenuti dalla Dda fra i più stretti sodali degli Accorinti ed arrestati mercoledì nell’operazione antimafia “Costa pulita” (sono stati arrestati Leonardo Melluso ed i figli Simone ed Emanuele), il collaboratore Raffaele Moscato è invece molto più preciso e dettagliato, in special modo sul “legame ‘ndranghetistico esistente tra Melluso Leonardo e la cosca Tripodi di Porto Salvo. Infatti il collaboratore spiega come Salvatore Tripodi abbia fatto da testimone alla cresima di uno dei figli gemelli di Melluso Leonardo che, evidentemente, costituisce segno simbolico del legame tra le consorterie”.
Questo il racconto di Raffaele Moscato sulla realtà criminale di Briatico: “So che a Briatico – spiega il pentito – c’è un gruppo criminale, quello dei Melluso, il padre si chiama Dino, del quale conosco i figli, in particolare i gemelli Simone ed Emanuele. L’altro fratello, il più piccolo, è stato cresimato da Salvatore Tripodi che tiene molto a questi Melluso, al punto da portare sempre al polso un orologio che gli è stato regalato in occasione della cresima, anche se non è un Rolex o altro orologio di valore.
Salvatore Tripodi
I Melluso – continua Moscato – hanno una ditta edile e si occupano della gestione di alcuni lavori unitamente ai Tripodi. In particolare i rapporti tra i due gruppi sono tenuti da Dino per i Melluso e da Salvatore Tripodi. Oltre al settore edile, Tripodi e Melluso erano accomunati dalla gestione di attività usurarie e, per quanto a mia conoscenza, i figli di Dino erano impiegati nel settore dello spaccio di sostanze stupefacenti. I Melluso dispongono di armi da fuoco e Dino Melluso faceva parte dell’ambiente criminale già da tempo. I lavori li prendono mediante l’imposizione delle loro ditte, anche tramite i Tripodi”.
Giuseppe Accorinti
Il locale di Zungri e la ‘ndrina di Briatico. E’ a questo punto che il collaboratore Raffaele Moscato fa cenno ad un particolare importante nell’ambito della “geografia” mafiosa di Vibo e del Vibonese, vale a dire l’esistenza di un vero e proprio “Locale” di ‘ndrangheta (struttura mafiosa sovraordinata alle singole ‘ndrine) facente capo a Zungri, zona dove gli inquirenti da sempre collocano al vertice della locale criminalità il clan che sarebbe guidato da anni da Giuseppe Accorinti, presunto boss della zona del Poro, e dove manca in sede giudiziaria qualunque riconoscimento di un’organizzazione mafiosa a Zungri, sia organizzata in ‘ndrina, sia in Locale. “Il territorio dove operano i Melluso – spiega il pentito Moscato – ricadrebbe nel locale di Zungri, solo che Dino Melluso non va molto d’accordo con Giuseppe Accorinti, detto Peppone, che è il capo di questo locale. Soprattutto non vanno d’accordo i figli di Melluso con “Lollo”, figlio di “Pino il cane”, che è di Briatico, soggetto che fa usura da una vita”.
Emanuele Melluso
I legami con i Piscopisani. Sui figli di Leonardo Melluso, detto Dino, Raffaele Moscato spiega invece che: “Simone ed Emanuele Melluso credo che loro non siano battezzati perché, nel 2011, non ricordo se prima o dopo l’omicidio di Patania Fortunato, il padre Dino andò a Piscopio a casa di Battaglia Rosario a chiedergli se “metteva mano” alla situazione per battezzarli come ‘ndranghetisti con i Piscopisani, poiché erano criminali non battezzati, come ce ne sono tantissimi a Vibo, anche perché i Melluso non volevano far parte del locale di Zungri. Battaglia Rosario rispose “poi vediamo”.
Simone Melluso
“Sono andato qualche volta al bar dei Melluso a Briatico, dove c’è la piazza – continua Moscato – ma non so quali altre attività abbiano oltre all’impresa edile. Tutti i danneggiamenti fatti a Lollo li hanno commessi i Melluso, ne parlavamo sempre nell’ambiente, con Battaglia e con Davide Fortuna. I danneggiamenti li fanno i gemelli Melluso, anche quelli ad un chiosco a Briatico gestito dai Romano, il padre Antonio e i figli, Francesco, Cristian e Paolo. Oltre a questo danneggiamento ne hanno fatto un altro ai Romano, alla casa di San Leo, nella strada del bar tabacchino. Un’altra volta – continua Moscato – hanno incendiato una Smart Cabrio di Francesco Romano, il chiosco lo hanno sparato o incendiato. Tutto ciò è stato fatto fino al 2011 dai fratelli Melluso perché ciò mi è stato riferito dagli stessi Romano”.
Il gip del Tribunale di Alessandria non ha convalidato il fermo della Dda di Catanzaro emesso nei confronti di Pino Bonavita, 70 anni, ritenuto al vertice dell’omonima “famiglia” e numero due della criminalità organizzata di Briatico che sarebbe guidata da Nino Accorinti. Il giudice non ha ravvisato i presupposti giuridici per giustificare il fermo di indiziato di delitto che ha bisogno dei requisiti della necessità e dell’urgenza. Al contempo, il giudice non ha ritenuto di emettere alcuna ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Francesco Giuseppe Bonavita, detto Pino. Il gip del Tribunale di Alessandria si è poi “spogliato” della competenza territoriale sul caso trasmettendo gli atti a Catanzaro. L’arresto di Pino Bonavita era avvenuto nella città di Alessandria e da qui la competenza del gip del locale Tribunale a pronunciarsi sul fermo.
Pino Bonavita
Le accuse. Pino Bonavita è accusato del reato di associazione mafiosa con il ruolo di “organizzatore” insieme a Leonardo Melluso (detto Dino), dell’associazione mafiosa di Briatico che sarebbe diretta da Antonino Accorinti. In particolare, Pino Bonavita sarebbe il co-reggente della cosca insieme ad Accorinti, costituendo anche lui il “diretto referente nei rapporti con la famiglia Mancuso e, segnatamente con Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”. A Pino Bonavita viene poi contestato anche il reato di concorso in intestazione fittizia di beni come le quote societarie della “Briatico Eolie srl”, della “Horacle srl”, della “Sicam srl” e della “Gest hotel sud srl”.
Pino Bonavita è difeso dall’avvocato Giuseppe Bagnato. (red 2)
La Commissione di accesso agli del Comune di Tropea, insediata il 23 ottobre scorso dalla Prefettura di Vibo su delega del ministro dell’Interno Angelino Alfano, ha concluso oggi i propri lavori. La proroga per ulteriori tre mesi di indagini era stata disposta il 23 gennaio scorso. Compito della Commissione, la verifica della sussistenza di forme di condizionamento da parte della criminalità organizzata o collegamenti diretti o indiretti con la stessa. La Commissione era composta dal viceprefetto di Vibo, Lucia Iannuzzi, dal comandante della Compagnia dei carabinieri di Tropea, Francesco Manzone, e dal capitano Giovanni Torino della Guardia di Finanza.
Alla base dell’invio della Commissione d’accesso agli atti, una serie di riferimenti a candidati delle liste contrapposte “Tropea Futura” e “Forza Tropea” nelle amministrative del maggio-giugno 2014. Candidati citati nelle inchieste antimafia “Black money” e “Peter Pan” contro i clan Mancuso di Limbadi e La Rosa di Tropea. All’attenzione della Prefettura, pure contratti, forniture, la gestione del porto, il piano strutturale comunale e diversi appalti, nonché frequentazioni e parentele di alcuni componenti del Consiglio comunale e della giunta con soggetti noti alle forze dell’ordine. A gennaio 2015, all’assessore comunale Antonio Bretti il sindaco di Tropea, Giuseppe Rodolico, aveva poi ritirato le deleghe dopo che la mattina del 1 gennaio un sorvegliato speciale, genero del boss di Tropea Antonio La Rosa (alias “Ciondolino”), aveva partecipato ad un evento pubblico organizzato sulla spiaggia per festeggiare il nuovo anno con un tuffo in mare. Le indagini della Commissione di accesso agli atti si sono concentrate anche sull’intera “macchina” amministrativa del Comune e sull’apparato burocratico dell’ente, con l’esame di pratiche che riguardano pure la precedente amministrazione comunale. I commissari invieranno ora una loro relazione al prefetto di Vibo Valentia, Carmelo Casabona, il quale avrà poi 45 giorni di tempo per fare proprie le conclusioni della Commissione ed inviare un’altra relazione al Ministero dell’Interno con la richiesta o meno dello scioglimento degli organi elettivi dell’ente per infiltrazioni mafiose o forme di condizionamento degli amministratori. L’ultima parola sull’eventuale proposta di scioglimento del ministro dell’Interno spetterà quindi al Consiglio dei ministri. I decreti di scioglimento degli organi elettivi degli enti locali portano invece la firma del presidente della Repubblica. (g.b.)
Il gip del Tribunale di Vibo, Alberto Filardo, ha convalidato per tutti disponendo una sola scarcerazione. Ancora latitante Nino Accorinti. Gip di Alessandria scarcera Pino Bonavita
di GIUSEPPE BAGLIVO
Il gip del Tribunale di Vibo Valentia, Alberto Filardo, ha convalidato 19 fermi su 20 disposti dai pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni. Il 21esimo arrestato, ovvero Pino Bonavita, 70 anni, di Briatico, ritenuto dagli inquirenti il co-reggente del clan briaticese insieme a Nino Accorinti, è stato invece rimesso in libertà dal gip del Tribunale di Alessandria, città nella quale Bonavita era stato arrestato e da qui la competenza del giudice di quel Tribunale sul fermo.
La decisione. L’unico per il quale il gip del Tribunale di Vibo Valentia, Alberto Filardo, non ha convalidato il fermo della Dda è Giovanni Rizzo (cl. ’82) di Nicotera(in foto a sinistra), difesodall’avvocato Guido Contestabile. Nei confronti degli altri 19 fermati, il giudice ha convalidato i fermi, ha emesso nei loro confronti un’ordinanza di custodia cautelare in carcere e contestualmente si è dichiarato territorialmente incompetente disponendo l’immediata restituzione degli atti alla Dda la quale avrà ora 20 giorni di tempo per chiedere al competente gip distrettuale di Catanzaro l’emissione di una nuova ordinanza di custodia cautelare, sia nei confronti di tutte le persone per le quali è stato oggi convalidato il fermo, sia nei confronti di coloro (Rizzo e Bonavita) nei cui confronti non è stato convalidato, e sia nei confronti di altri indagati che allo stato si trovano a piede libero.
In carcere. Restano detenuti in carcere: Cosmo Michele Mancuso (cl. ’49), di Limbadi, già condannato nel processo “Dinasty” quale boss dell’omonimo clan (in foto a sinistra); Salvatore Muzzopappa (cl. ’71) di Nicotera (cognato del boss Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”); i fratelli Davide (cl. 85) e Federico Surace ( cl. ’91), di Spilinga; Antonio Accorinti (cl. ’80),figlio di Antonino Accorinti; Leonardo Melluso (cl. ’65) di Briatico ed i figli Emanuele (cl. ’85) e Simone Melluso (cl. 85); Nazzareno Colace (cl. ’64) di Portosalvo, frazione di Vibo Valentia; Giuseppe Evalto (cl. ’63), residente a Pizzo Calabro; Giuseppe Granato (cl. ’65) di Briatico; Ferdinando (cl. ’82) e Carmine (cl. ’59) Il Grande di Parghelia; Gerardo La Rosa (cl. ’74) di Tropea; Giancarlo Loiacono (cl. ’73) di Zambrone; Francesco Marchese (cl. ’86) di Briatico; Pasquale Prossomariti (cl. ’85) di Santa Domenica di Ricadi; Salvatore Prostamo (cl. ’76) di Briatico; Carlo Russo (cl. ’78) di Zambrone. Nei loro confronti il gip ha ravvisato il pericolo di fuga, la gravità indiziaria e la pericolosità sociale. Impegnati nel collegio di difesa gli avvocati Giuseppe Bagnato, Francesco Sabatino, Francesco Muzzopappa, Vincenzo Galeota, Guido Contestabile.
Antonino AccorintiPino BonavitaNazzareno Colace
Resta latitante Antonino Accorinti (cl. ’56), ritenuto a capo dell’omonimo clan.
Il gip del Tribunale di Milano ha convalidato il fermo della Dda di Catanzaro emesso nei confronti di Adriano Greco, 34 anni, di Briatico, coinvolto nell’operazione antimafia denominata “Costa pulita” ed accusato dei reati di associazione mafiosa e detenzione illegale di armi. In particolare, Greco secondo l’accusa avrebbe avuto il compito di gestire le cooperative di servizi in Lombardia per conto della cosca, ed in particolare di Melluso Leonardo, imponendo la manodopera, facendo giungere i proventi alla consorteria e reperendo le armi da far giungere in Calabria. L’arresto di Adriano Greco era avvenuto mercoledì nella città di Milano e da qui la competenza del gip del locale Tribunale a pronunciarsi sul fermo e poi a trasmettere gli atti per competenza alla Dda di Catanzaro.
I rapporti con i Mancuso, il controllo dei villaggi turistici, le minacce agli imprenditori, le pressioni sugli uffici del Comune e l’arroganza di un potere mafioso che va avanti da anni
di GIUSEPPE BAGLIVO
Sarebbe da anni sotto l’assoluto controllo criminale della “famiglia” Il Grande, il centro costiero di Parghelia, comune del Vibonese confinante con Tropea da un lato e Zambrone dall’altro. Quanto già emerso nell’ambito dell’operazione antimafia “Peter Pan” del dicembre 2012 viene infatti confermato ed ampliato dalle nuove risultanze investigative dell’inchiesta antimafia denominata “Costa pulita” che spiegano chiaramente come l’articolazione mafiosa del clan Il Grande “costituisce una costola della cosca Mancuso e segnatamente di quella facente capo a Mancuso Cosmo, detto Michele o Michelina, sotto la cui ala protettiva la famiglia Il Grande opera nel comune di Parghelia”.
Carmine Il Grande
Dal decreto di fermo dell’operazione “Costa pulita” emerge del resto che Cosmo Michele Mancuso si è prodigato per evitare l’assassinio di Carmine Il Grande, programmato e voluto da Pantaleone Mancuso, inteso “Scarpuni” (nipote di Cosmo Michele Mancuso), per questioni riguardanti il controllo del territorio di Parghelia dove, a detta di “Scarpuni”, Carmine Il Grande si sarebbe sentito il “padrone” con “l’arroganza dell’appoggio di Cosmo Michele Mancuso”. Lo stesso Pantaleone Mancuso (Scarpuni) nel progettare l’assassinio di Carmine Il Grande avrebbe avuto delle perplessità sull’omicidio poiché consapevole che il clan Il Grande “può vantare numerosi sodali-familiari e che quindi potrebbe aprirsi una guerra intestina cruenta con conseguenti ovvii danni dall’una e dall’altra parte”. Pantaleone Mancuso chiede infatti a due suoi interlocutori Giancarlo Lo Iacono e Carlo Russo (entrambi arrestati): “Quanti fratelli sono questi animali?”, ricevendo quale risposta: “Otto fratelli e due sorelle” e suscitando in tal modo l’ilarità di Scarpuni che riteneva necessario l’uso del veleno per eliminarli tutti (Ci vuole la medicina per abbatterli…”).
Secondo le risultanze investigative, l’articolazione mafiosa facente capo a Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni” (in foto a sinistra), riteneva Carmine Il Grande responsabile di aver avviato “un’attività intimidatoria nei confronti dell’impresa HR Tourist, “protetta” da Mancuso Pantaleone, che era stata destinataria del recapito di una bottiglia con liquido infiammabile. Inoltre Il Grande Carmine – ricostruisce la Dda – era ritenuto responsabile da Mancuso Pantaleone dell’“appropriazione” ovvero della guardinaia del villaggio Sabbie Bianche, attività che in passato era appannaggio di tal Totò, sodale di Mancuso Pantaleone e individuabile verosimilmente in Prenesti Antonio, già condannato con la sentenza Dinasty”. Il villaggio turistico “Sabbie Bianche”, ad avviso della Dda, rientrerebbe sotto il controllo di Carmine Il Grande, tanto che il supervisore del villaggio avrebbe demandato a “Carmine Il Grande le nuove assunzioni nel villaggio pur essendo egli un semplice dipendente della società Aurum Hotel che gestisce il predetto villaggio”.
Giancarlo Lo Iacono
I rapporti fra Il Grande e i Mancuso. Oltre alla consegna di assegni ed animali da componenti del clan Il Grande a Cosmo Michele Mancuso, chiarificatore dei rapporti fra il clan il Grande e l’articolazione della cosca Mancuso facente capo a Cosmo, detto Michele, è inoltre l’episodio che ha visto vittima un imprenditore che si era rivolto a Cosmo Mancuso per ricevere “protezione”. Cosmo Michele Mancuso suggerisce infatti all’imprenditore “Fabiano Francesco Antonio a cui Carmine Il Grande aveva richiesto di pagare delle somme di denaro a titolo di estorsione, a pagare l’estorsione richiesta da Il Grande sulla scorta della regola ‘ndraghetistache impone all’imprenditore di pagare la mazzetta alla cosca operante nel luogo in cui vengono eseguiti i lavori”. L’imprenditore sarebbe stato anche schiaffeggiato da Carmine Il Grande che riteneva troppo bassa la somma, pagata, di 6 mila euro.
Cosmo Michele Mancuso
Anche il guardiano del villaggio camping “Baia di Zambrone”, ad avviso della Dda, si sarebbe rivolto a Carmine Il Grande per ricevere consigli dopo aver ricevuto “una richiesta di somme di denaro da parte di emissari di Pantaleone Mancuso”, nonostante il guardiano del camping fosse già “costretto a pagare annualmente somme di denaro ad altra persona”. Trattandosi di equilibri interni alla famiglia Mancuso, Carmine Il Grande si sarebbe riservato di parlarne a Cosmo Mancuso”, inviando poi dal boss di Limbadi “Ferdinando Il Grande e Gerardo La Rosa”. Nell’occasione, tuttavia, Cosmo Mancuso non avrebbe assunto alcuna decisione, “lavandosene le mani e riferendo agli emissari di Il Grande Carmine che la vicenda non gli interessava e che non era comunque di sua pertinenza”.
Carlo Russo
Condizionamento degli appalti a Parghelia. Già sciolto nel 2007 per infiltrazioni mafiose (amministrazione all’epoca guidata dal sindaco Vincenzo Calzona), il Comune di Parghelia avrebbe continuato negli anni a subire il condizionamento e l’arroganza dei clan. Carmine Il Grande è infatti accusato di violenza e minaccia ai danni dell’ingegnere Francesco Parisi, responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Parghelia, il quale nel 2009 si sarebbe legittimamente rifiutato di rilasciare un’autorizzazione avente ad oggetto il rinnovo di una concessione demaniale ad un chiosco in località “Milio”, all’interno del villaggio “Sabbie Bianche”, intestata al nipote Filippo Il Grande (cl. ’86) e sarebbe stato per questo pesantemente minacciato (con il lancio violento dei suoi stessi occhiali da sole che gli hanno provocato delle ferite vicino l’occhio) da parte di Carmine Il Grande affinché rilasciasse il richiesto provvedimento.
Ferdinando Il Grande
Collegamenti con i Melluso di Briatico e “ruolo” del clan Il Grande. In materia di reperimento di armi, che sarebbero state inviate da Magenta a Parghelia con l’interessamento di Francesco Piccolo (cl. ’74, indagato), gli investigatori sono invece riusciti ad accertare i rapporti fra il clan Il Grande (con un ruolo anche di Gerardo La Rosa, cognato di Ferdinando Il Grande, che del clan di Parghelia farebbe parte) ed i gemelli Emanuele e Simone Melluso, ritenuti organici all’omonima “famiglia” di Briatico facente parte del clan Accorinti. L’arroganza criminale di Carmine Il Grande, per gli inquirenti, la si può inoltre apprezzare dall’episodio che ha visto lo stesso al centro di un incidente stradale con Pasquale Landro.
Gerardo La Rosa
Carmine Il Grande (cl.’59, detto “Melo”), Ferdinando Il Grande (cl. ’82, figlio di Carmine), Egidio Il Grande (fratello di Carmine), Carmine Il Grande (cl. ’78) e Salvatore Lo Iacono sono infatti tutti accusati di minaccia aggravata dalle modalità mafiose per aver esploso il 7 novembre del 2010 a Zambrone colpi d’arma da fuoco contro l’abitazione di Pasquale Landro.
Il tutto quale forma di ritorsione dopo l’incidente. I colpi non sono andati poi a segno, mentre una delle armi usate nell’occasione sarebbe stata detenuta “nei pressi del cancello di accesso del villaggio Sabbie Bianche di Parghelia”. Gli stessi cinque indagati sono anche accusati di aver progettato l’incendio contro il chiosco della moglie di Landro.
Il condizionamento del clan Il Grande su Parghelia. Circa il condizionamento operato dagli appartenenti alla famiglia Il Grande sul territorio di Parghelia, per la Dda sono infine significative le dichiarazioni rilasciate agli investigatori nel 2011 da un imprenditore turistico al quale un avvocato (sul quale sono in corso ulteriori approfondimenti), “parlando a nome di tutta la famiglia Il Grande, ovvero Egidio, Melo e Nandino che sono i tre personaggi che notoriamente in paese comandano”, avrebbe suggerito di ritirare una denuncia in modo tale che in cambio la famiglia Il Grande avrebbe fatto sì che l’afflusso di clienti nel locale della figlia dell’imprenditore sarebbe ripreso regolarmente.
Dall’inchiesta “Costa pulita” emerge il tentativo dei clan di infiltrarsi nei lavori dell’opera pubblica. Il ruolo degli imprenditori e dei tecnici portati al cospetto del boss
di GIUSEPPE BAGLIVO
Sarebbe finita anche la Tangenziale Est di Vibo – importante opera pubblica che nelle intenzioni avrebbe dovuto collegare Stefanaconi al bivio di Sant’Onofrio (nei pressi del carcere) e che di fatto ha finito per sventrare la collina sotto il castello di Vibo – fra le opere pubbliche in cui “palese” si sarebbe dimostrato “il disegno criminoso di Pantaleone Mancuso (Scarpuni) e Antonino Accorinti di Briatico finalizzato a infiltrare una propria impresa nei lavori di completamento, messa in sicurezza e ripristino della Tangenziale Est di Vibo”, appaltati dalla Provincia di Vibo nel 2011 e aggiudicati alla ditta “Ati Aquila Sondaggi/ Società Cooperativa Costruzioni Calabrese per l’importo di 885.893,90 euro, oltre oneri di sicurezza ed Iva.
E’ quanto emerge dagli atti dell’inchiesta “Costa pulita” della Dda di Catanzaro (pm Camillo Falvo e Pieropaolo Bruni) che mercoledì ha inferto un duro colpo ai clan Mancuso di Limbadi e Accorinti di Briatico. Il tentativo di infiltrazione mafiosa nei lavori di quella passata alla storia come l’atreria che ha provocato un disastro ambientale, tanto che la Tangenziale è tuttora chiusa al transito per pericolo di crolli dalla collina che sovrasta il castello di Vibo, è stato ricostruito punto per punto dagli inquirenti grazie a importanti intercettazioni ambientali captate nel “bar Tony” di Nicotera Marina dove il boss Pantaleone Mancuso ha ricevuto tecnici comunali ed ingegneri, mafiosi e “colletti bianchi”
L’intercettazione al bar Tony. E’ il 16 febbraio del 2013 quando Antonino (Nino) Accorinti, ritenuto il boss dell’omonimo clan di Briatico, accompagnato da Francesco Marchese (cl. ’86), di Briatico, arrestato) riferiva a Pantaleone Mancuso (Scarpuni, in foto a sinistra) che era andato a parlare con Lello Fusca “per il lavoro di Sant’Onofrio”, ma necessitava il nome dell’ingegnere direttore dei lavori, in quanto, “essendo l’impresa di Fusca una cooperativa, non tutti i lavori erano seguiti dal Fusca stesso” e pertanto gli occorreva quel nome di modo che “Lele” gli potesse parlare ancor prima che Accorinti lo avvicinasse”. Lello Fusca è stato individuato negli inquirenti per il noto imprenditore vibonese Michele Fusca, detto Lello, già negli anni ’80 presidente del Nucleo Industriale di Vibo, e nell’inchiesta “Costa pulita” indagato a piede libero per violenza privata ai danni dell’imprenditore Michele Mandaradoni. Accorinti durante il colloquio con Mancuso, ad avviso degli investigatori “asseriva di avere appuntamento con Fusca e pertanto era opportuno avere quanto prima quel nominativo. A tal fine invitava Francesco Marchese, che lo accompagnava, a tornare l’indomani da Mancuso che gli avrebbe detto il nome del professionista”.
Antonino Accorinti
L’ingegnere Albino di Joppolo da Mancuso. Il giorno successivo, stando alla ricostruzione della Dda, Pantaleone Mancuso (Scarpuni) riceveva al bar Tony, Sisto Albino (cl. 54), ingegnere di Joppolo, già tecnico comunale e da ultimo in servizio al Comune di Ricadi e già coinvolto nell’inchiesta “Chopin” sulle ville di Coccorino, a cui il boss chiedeva il nome dell’ingegnere che si stava occupando della “strada per Stefanaconi”, ovvero la Tangenziale Est di Vibo, asserendo che c’era un amico (Antonino Accorinti) che poteva avvicinare tutti e due, cioè sia Lello Fusca che l’ingegnere. Sisto Albino a questo punto, secondo gli investigatori, “in piena sintonia con Mancuso, comunicava che il direttore dei lavori era un ragazzo già sotto la sua influenza” e infatti chiamava al telefono Rosario Bruzzaniti di Limbadi – direttore dei lavori della Tangenziale Est – che interveniva al bar Tony illustrando che ai lavori della strada, “oltre all’impresa” individuata dalle indagini nella “Società Cooperativa Costruzioni Calabrese” il cui presidente del consiglio di amministrazione è Michele Fusca, stava lavorando pure “Chiaromonte” aggiungeva che era in programma uno stanziamento di altri 7 milioni di euro.
Successivamente Francesco Marchese (in foto a sinistra), Sisto Albino e Rosario Bruzzaniti concordavano un incontro a Santa Domenica di Ricadi per le 17 successive, al quale avrebbe partecipato anche Nino Accorinti.
In separata sede, invece, Pantaleone Mancuso avrebbe detto a Sisto Albino di parlare con Nino Accorinti per vedere di prendere qualcosa in “più”, affinché ci potesse uscire il regalino per “Luni”, ovvero la percentuale di tangente sui lavori.
Gli sviluppi della vicenda. Ad avviso degli inquirenti, non si hanno riscontri oggettivi che la richiesta sia poi pervenuta all’imprenditore Michele Fusca, il quale, interrogato dagli investigatori nell’agoso 2014 sulla vicenda, non ha però “escluso” che ciò possa essere avvenuto.
Che la richiesta, qualora pervenuta, fosse una pretesa al di fuori dei normali contatti imprenditoriali lo si rileva per la Dda anche dalle parole dello stesso Michele Fusca il quale, con le sue dichiarazioni, ha tenuto a precisare che, se anche gli fosse stato richiesto, certamente non aveva assecondato Nino Accorinti. Michele Fusca, in ogni caso, nell’inchiesta “Costa pulita” viene ritenuto contiguo ai Mancuso, tanto che la contestazione di violenza privata (ai danni dell’imprenditore Michele Mandaradoni per i lavori di bonifica nell’area industriale Ex Fiera di porto Salvo), formulata nei suoi confronti dai pm della Dda Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni, è aggravata dalle modalità mafiose (art. 7 della legge antimafia) in quanto l’imprenditore Fusca – ad avviso degli inquirenti – si sarebbe avvalso della sua “notoria – evidenzia la Dda – contiguità alla cosca Mancuso”.
Giancarlo Lo Iacono
E’ lo stesso Nino Accorinti a spiegare a Pantaleone Mancuso (Scarpuni) di aver parlato con Michele (Lello) Fusca “che si era impegnato a intercedere in loro favore”. Nei dialoghi captati nel bar Tony, Antonino Accorinti riferendosi all’imprenditore Fusca spiega a Mancuso: “Mi ha detto: “Perché quel lavoro non lo sto seguendo io – mi ha detto – Comunque – mi ha detto – tu dimmi il nome io, magari, vedo com’è, lo chiamo e vedo quello che possiamo fare”).
Il 17 febbraio 2013 era quindi Francesco Marchese a presentarsi al bar “Tony”, accompagnato nella circostanza da Giancarlo Lo Iacono. “I due salutavano Pantaleone Mancuso, Marino Artusa e Tomeo detto Lello. Questi dopo aver ribadito l’appuntamento fissato per il martedì seguente usciva dal bar, accompagnato da Mancuso”.
La macchina del crimine. A questo punto, per la Dda, “ormai la macchina del crimine si era messa in moto e sembrava voler fare presto, il prima possibile; è per questo motivo che Albino intuiva subito le intenzioni di Mancuso, al quale domandava se volessero incontrarlo a breve (Albino Sisto: … e volete vedervi prima con lui?… Che lo chiamo…). Mancuso confermava, anticipando che poi sarebbero andati da “Nino” Accorinti. (Mancuso Pantaleone: … così magari l’accompagni là da Nino…), con il quale avrebbe “fatto la strada”, nel senso che lo avrebbe referenziato presso la cooperativa di Lello Fusca come soggetto accreditato dalla cosca. “Luni” Mancuso chiedeva quindi conferma se “il direttore dei lavori” fosse capace di “scippare qualcosa” (Mancuso Pantaleone: lui mi pare che mi ha detto che… sa scippare… qualche cosa…) e Albino, evidenziando – sottolineano gli inquirenti – la forza intimidatrice del metodo mafioso, sosteneva che quello avrebbe fatto tutto ciò che gli veniva chiesto (Albino Sisto: … lui fa quello che gli diciamo noi!).
Secondo i pm della Dda do Catanzaro, Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni, “l’empio patto veniva suggellato da Pantaleone Mancuso che rimarcava che con quell’impiegato vi era “amicizia” (Mancuso Pantaleone: … qualsiasi cosa vi serve… qualsiasi cosa vi serve… che sono amici…), mentre Lo Iacono Giancarlo invischiava nel torbido giro anche il cognato Alvaro (Lo Iacono Giancarlo:… ALVARO… mio cognato… per vedersi…),addetto al Comune di Joppolo (Albino Sisto: che è a Joppolo!…e prossimo anche ad occupare l’analogo posto di Nicotera”.
Allontanatosi Sisto Albino, Pantaleone Mancuso (Scarpuni) rimarcava a Francesco Marchese la questione della “mazzetta” ribadendo anche a lui la richiesta di un “regaluccio”.
Accordi, scambio di voti e alleanze fra mafia e politica al centro dell’inchiesta della Dda. Massima l’attenzione sul “caso Briatico” anche da parte della Prefettura di Vibo
di GIUSEPPE BAGLIVO
Carmelo Casabona
Finisce sotto la lente d’ingrandimento anche della Prefettura di Vibo Valentia, ed in particolare del prefetto Carmelo Casabona che da gennaio guida l’Ufficio territoriale vibonese e proviene dalla polizia, l’inchiesta “Costa pulita” della Dda di Catanzaro che mercoledì scorso ha portato a 22 fermi, 20 dei quali già convalidati dal gip che ha spedito poi gli atti a Catanzaro affinchè la Procura richieda al competente gip distrettuale l’emissione di un’ordinanza. In totale sono 89 gli indagati, un lavoro enorme e che ha visto congiuntamente impegnati polizia, carabinieri e Guardia di Finanza. Un’indagine portata a termine – e di cui si intravedono nuovi sviluppi – con il coordinamento dei pm della Dda Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni. L’inchiesta tocca da vicino anche alcuni enti locali ed in particolare il Comune di Briatico. Da qui l’interessamento pure da parte della Prefettura di Vibo Valentia che, alla luce delle risultanze dell’inchiesta – e di altri elementi già in suo possesso – sta valutando l’invio di una Commissione di accesso agli atti al Comune di Briatico. Sarebbe la terza in poco più di un decennio. Le altre due hanno portato allo scioglimento degli organi elettivi per infiltrazioni mafiose rispettivamente nel marzo 2003 e nel gennaio 2012.
Amministratori di Briatico sotto “osservazione”. Fra gli assessori dell’attuale giunta comunale guidata dal sindaco Andrea Niglia (che è anche presidente della Provincia di Vibo Valentia dall’ottobre 2014 ed è indagato quale sindaco per concorso in 416 bis, ovvero l’associazione mafiosa), due sono finiti all’attenzione della Dda. Si tratta di Costantino Massara, già sindaco di Briatico nell’amministrazione sciolta nel marzo 2003 per infiltrazioni mafiose (ed in cui come assessore figurava anche Francesco Prestia, poi sindaco nel 2010 e pure lui “mandato a casa” nel 2012 per infiltrazioni mafiose) e Carlo Staropoli, che durante l’amministrazione Prestia ricopriva la carica di presidente del Consiglio comunale ma si era dimesso nell’agosto 2011.
Antonino Accorinti
La Dda sull’assessore Carlo Staropoli. Un apposito capitolo della voluminosa inchiesta antimafia denominata “Costa pulita” viene intitolato e dedicato dalla Dda di Catanzaro al “Sostegno elettorale ai consiglieri Carlo Staropoli e Gennaro Melluso”, quest’ultimo legato da comparaggio con il presunto boss di Briatico, Nino Accorinti, che a Melluso – secondo le risultanze investigative – ha fatto da testimone di nozze. Gennaro Melluso è stato poi assessore nella giunta comunale guidata da Francesco Prestia. Il riferimento degli inquirenti al “sostegno elettorale” è riferito alle elezioni comunali del 2010 vinte dalla lista del sindaco Francesco Prestia in contrapposizione a quella di Andrea Niglia. Ma finisce per avere una valenza più attuale che mai, atteso che alcuni dei “chiamati in causa” (non indagati) ricoprono anche oggi (è il caso di Carlo Staropoli, assessore della giunta del sindaco Niglia) incarichi pubblici.
Giuseppe Granato
Sia il geometra Salvatore Postamo che l’imprenditore edile Giuseppe Granato di Briatico (entrambi arrestati mercoledì con l’accusa di associazione mafiosa ed in particolare di far parte del clan Accorinti), ad avviso della Dda nel 2010 “si sono adoperati a favore della vittoria elettorale di Francesco Prestia e dei componenti della sua lista, tra i quali il consigliere di maggioranza Carlo Staropoli, detto “Gaiotu”, e l’assessore Gennaro Melluso”. Salvatore Prostamo, intercettato dagli investigatori, ammette “chiaramente di aver procacciato voti per fare eleggere l’allora consigliere di maggioranza e presidente del Consiglio Comunale Carlo Staropoli, togliendone alcuni al consigliere Gennaro Melluso, evidentemente pure lui appoggiato da Prostamo”. ( Prostamo: “Mi servivano i voti! Poi una volta che lo abbiamo votato ho detto io: “ Dato che ormai si sa a Briatico che lo porto io…non farlo salire e’ vergogna no?!” Allora mi sono preoccupato di trovargliene un pò… Glieli ho presi a Gennaro, glieli ho presi…).
Salvatore Prostamo
“Ancora più importanti – sottolinea la Dda – sono le affermazioni di Prostamo nel momento in cui comunica alla moglie che il predetto sistema di assegnazione dei voti in favore di soggetti contigui al clan – spiega la Dda – è gestito da Antonino Accorinti,al quale spetta sempre l’ultima parola”. (Prostamo:…Ma io non è che con Carlo…Io gli ho dato i voti alle votazioni perché mi servivano i voti di CARLO per vincere amore mio…, Io me la sono discussa con NINO, no?”).
Andrea Niglia e Franco Accorinti, fratello di Nino. E’ ancora quello che gli inquirenti definiscono come “il ben informato Prostamo Salvatore” a delineare alla Dda nelle intercettazioni alcuni avvenimenti che sarebbero accaduti nel corso delle elezioni comunali del 2010 a Briatico. Andrea Niglia (in foto a sinistra), già sindaco di Briatico dal 2005 al 2010 (rieletto nel maggio 2014 quando alle elezioni è stata presentata una sola lista), sembrava nel 2010 “destinato ad essere rieletto – sottolinea la Dda citando Prostamo – ma poi lo stesso Niglia perdeva l’appoggio di Accorinti Antonino che creava una lista avversa, con l’intento di impedire a Niglia di essere rieletto”. Infatti Prostamo riferisce nei dialoghi intercettati: “Non lo so perchè non ha raggiunto l’obiettivo all’ultimo, perchè gli è andato contro e gli ha fatto una lista. Perchè guarda che fino a un mese prima si incontravano…Una sera siamo andati a mangiare io, tuo zio Pino Bonavita, quello e quell’altro. Siamo andati a mangiare a Lamezia”.
Ancora, Prostamo puntualizza che il vero avversario di Andrea Niglia è stato solo Antonino Accorinti: “Lo appoggiavano tutti, lo sai contro chi ha perso? Ah? Lo sai contro chi ha perso lui? Contro Nino Accorinti ha perso lui, che dietro non c’era nessuno, lui ha perso solo contro Nino Accorinti, e basta, contro una sola persona ha perso, una sola, che nessun altro si è impegnato”.
Costantino Massara
La Dda, nella sua ricostruzione, rimarca quindi il fatto che anche “Francesco Vincenzo Accorinti, fratello di Antonino Accorinti” – già vicesindaco (il più votato all’epoca con 637 voti) nell’amministrazione del 2002 guidata da Costantino Massara poi sciolta nel 2003 per infiltrazioni mafiose (oggi Costantino Massara è assessore della giunta guidata dal sindaco Niglia) – nel 2010 “avrebbe sostenuto Andrea Niglia, con la promessa da parte di quest’ultimo non solo di nominare tra i suoi assessori persone gradite agli Accorinti (Domenico Marzano e Salvatore Prostamo), ma anche di fare assumere il figlio di Franco Accorinti (Antonio) alla Italcementi, con la quale Andrea Niglia – sottolineano i pm Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni – manteneva rapporti ambigui ”.
“Tuttavia il predetto accordo – spiegano gli inquirenti – non venne concluso, poiché Franco Accorinti non volle entrare in contrasto con il fratello Nino, che aveva deciso di creare un’altra lista”. E’ a questo punto, secondo la ricostruzione degli investigatori, supportata dal racconto intercettato di Prostamo, che Andrea Niglia avrebbe pregato Franco Accorinti di non chiedere comunque voti contro di lui. A tal proposito Prostamo afferma nelle intercettazioni: “Allo studio mio hanno parlato eh! Si sono stretti la mano gli disse: “Io ce la metto tutta Andrea.” Gli disse Franco, Franco! Gli disse: “Se mio fratello fa la lista io… Andrea mio…” gli ha detto “Mi dispiace…” perchè gli aveva fatto il favore. Franco dice “A me non mi interessa”, e lo dice ancora Franco, “Io ho perso un posto di lavoro, mi assumevano a mio figlio nel cementificio per farmi i fatti miei…”. Gli aveva detto Andrea: “Allora me lo fai un favore?” all’ultimo quando non ha raggiunto l’obiettivo si sono rivisti con Franco e gli ha detto “Andrea non c’è niente, non vuole! Dice che deve fare la lista” – “ E me lo fai un favore?” gli ha detto Andrea, gli aveva cercato un favore. Gli disse: “Fatti i fatti tuoi!” a Franco; “Non andare a cercare voti!” – “No…” gli ha detto, “Questo non me lo puoi cercare Andrea” gli ha detto, “Se c’è mio fratello che fa la lista io esco e cerco i voti. Questo non glielo posso fare a mio fratello” gli ha detto Franco. E basta. Da lì in poi si sono presentate le liste e non si sono visti più eh! Basta! Però io ti sto dicendo i retroscena che ho assistito io con le mieorecchie! Li ho portati io all’appuntamento!”.
Pino Bonavita
Fondamentali per ricostruire tali avvenimenti, ad avviso degli investigatori, si sarebbero rivelate le intercettazioni ambientali tra il geometra Salvatore Prostamo e Luigi Barillari (non indagato). Quest’ultimo, sottolineano gli inquirenti, è “cugino di Andrea Niglia. Il rapporto di parentela tra Barillari Luigi e Niglia Andrea – evidenziano gli investigatori – è dato dal fatto che quest’ultimo (Niglia) è coniugato dal luglio 2010 con Cavallaro Alessia, figlia di Bonavita Rosa Maria, sorella di Bonavita Carmela, madre di Barillari Luigi”. Bonavita Rosa Maria (anche lei già consigliere comunale nell’amministrazione del sindaco Costantino Massara e del vIcesindaco Franco Accorinti, poi sciolta per infiltrazioni mafiose nel 2003) e “Bonavita Carmela sono anche sorelle di Bonavita Francesco Giuseppe”, detto Pino, quest’ultimo indagato nell’inchiesta “Costa pulita” per associazione mafiosa (era stato arrestato e poi scarcerato dal gip di Alessandria) quale co-reggente del clan di Briatico.
“Proprio per quanto riguarda Luigi Barillari è emerso – scrivono i pm Falvo e Bruni – come la sua assunzione quale collaboratore (autista) della Cooperativa per il trasporto di alunni e persone anziane e disabili, abbia avuto il placet di Antonino Accorinti”. Tale ultimo episodio, peraltro, ha costituito pure uno degli elementi che hanno portato allo scioglimento per infiltrazioni mafiose nel 2012 degli organi elettivi del Comune di Briatico.
Il Tribunale collegiale di Catanzaro ha revocato la misura della custodia cautelare in carcere (detenuto dal 24 aprile 2013 ininterrottamente ) a Koval Vasil cittadino ucraino da anni residente a Maida, imputato di associazione per delinquere di stampo mafioso e di svariate ipotesi di estorsione pluriaggravata anche dall’art.7 della legge antimafia. Il Koval è indicato dal collaboratore di giustiziano, Matteo Vescio, come l’esecutore materiale di molteplici estorsioni che sistematicamente dal 2005 sino al 2010 venivano consumate nei riguardi degli autisti dei bus in partenza ed in arrivo dai Paesi dell’Est verso Lamezia e Catanzaro.
In data 12 aprile 2016 la difesa del Koval (avvocati Domenico Folino del Foro di Lamezia e Diego Brancia del Foro di Vibo Valentia), dopo la requisitoria del pm che aveva avanzato una richiesta di pena pari a 13 anni di reclusione, depositavano una richiesta di rimessione del procedimento alla Corte di Cassazione per legittimo sospetto, chiedendo al Tribunale di sospendere il dibattimento in attesa della decisione.
Il legittimo sospetto, secondo la difesa, si sarebbe fondato sulle dichiarazioni del presidente della Commisione Parlamentare antimafia, Rosy Bindi, in visita in Calabria tali da condizionare la decisione del Collegio catanzarese, attesa la promessa dell’onorevole Bindi di una legge speciale per la Calabria al fine di rispondere alla recrudescenza della criminalità.
In data 24 aprile 2016 sarebbero decorsi i termini durata massima della custodia cautelare (pari a tre anni) e, comunque , la difesa nel chiedere la sospensione del dibattimento, aveva anche avanzato istanza di revoca della misura a cui il Koval dal 24 aprile 13 era sottoposto, senza che fosse mai intervenuta la sentenza di primo grado.
Il Tribunale pur invitando la difesa a discutere all’udienza del 12.04.2016 ha rinviato la pronuncia del dispositivo al 12 maggio 2016 ed in data 22 aprile 16 ha revocato la misura cautelare personale disponendo l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per due volte al giorno e l’obbligo di dimora nel comune di Mida e disponendo al contempo per l’ucraino il divieto di espatrio e la revoca del passaporto.
Vasil Koval è accusato di aver preso parte, ‘l’operazione “On the Road”, ad un’associazione mafiosa composta da stranieri e da qualche calabrese con estorsioni consumate nella zona di piazza d’Armi a Catanzaro. Nei suoi confronti il pm ha chiesto la condanna a 13 anni di carcere.
Concluso in Corte d’Appello a Catanzaro il processo al clan vibonese finito al centro dell’inchiesta antimafia “Lybra” condotta dal pm della Dda Pierpaolo Bruni
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La Corte di appello di Catanzaro, presieduta dal giudice Maria Vittoria Marchianò, ha emesso la sentenza di secondo grado contro 7 imputati coinvolti nell’operazione antimafia “Lybra” contro il clan Tripodi di Porto Salvo, frazione di Vibo Valentia. Confermate rispetto al primo grado di giudizio – celebrato con rito abbreviato – le condanne per: Nicola Tripodi (68 anni), 8 anni di carcere; Salvatore Vita, di Vibo Marina, 9 anni; Massimo Murano (43 anni, di Busto Arsizio), 3 anni; Gregorio De Luca (38 anni, di San Gregorio d’Ippona), 2 anni e 8 mesi. Sette anni e 6 mesi per Antonio Tripodi ( 52 anni, fratello di Nicola e che in primo grado era stato condannato a 7 anni in primo grado), mentre Sante Tripodi (43 anni, altro fratello di Nicola) è stato condannato a 6 anni e 8 mesi (4 anni e 8 mesi in primo grado). Due anni e 8 mesi, infine, la condanna per Francesco Lo Bianco, 42 anni, di Porto Salvo.
Nicola Tripodi
Associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni, frode nelle pubbliche forniture, usura, rapina ed estorsione i reati, a vario titolo, contestati. Nel mirino del clan, che avrebbe esteso i suoi affari anche a Roma ed in Lombardia, ci sarebbero stati anche i lavori del post alluvione del 2006 a Vibo Marina.
La sentenza con rito abbreviato in primo grado emessa il 4 febbraio 2015 dal gup distrettuale di Catanzaro, Domenico Commodaro, ha assunto una valenza storica perché per la prima volta in sede giudiziaria è stata sancita da un giudice l’esistenza del clan mafioso dei Tripodi. In primo grado il verdetto era stato il seguente: Nicola Tripodi, 8 anni; Sante Tripodi, 4 anni ed 8 mesi; Antonio Tripodi, 7 anni; Salvatore Vita, 9 anni; Gregorio De Luca, 2 anni ed 8 mesi; Massimo Murano, 3 anni; Francesco Lo Bianco era stato assolto in primo grado.
Antonio TripodiSante TripodiSalvatore Vita
Nel collegio di difesa figurano gli avvocati Anselmo Torchia, Domenico Anania, Sergio Rotundo, Giuseppe Bagnato e Guido Contestabile.
L’operazione era stata coordinata dal pm della Dda di Catanzaro, Pierpaolo Bruni, mentre la parte più significativa dell’inchiesta era stata condotta dai carabinieri della Stazione di Vibo Valentia guidati dal comandante Nazzareno Lopreiato. (g.b.)
E’ ritenuto il capo dell’omonimo clan al centro dell’inchiesta dei pm della Dda di Catanzaro Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni. E’ stato individuato in serata dai carabinieri
Operazione dei carabinieri del comando provinciale di Vibo Valentia diretti dal colonnello Daniele Scardecchia, con il supporto dei militari dell’Arma della locale Compagnia (Nucleo e della Stazione di Briatico. In località Solaro a Briatico è stato infatti individuato il latitante Nino Accorinti, 60 anni appena compiuti, ritenuto il capo indiscusso dell’omonimo clan egemone nella cittadina tirrenica vibonese.
In casa con moglie e figlie. Al momento dell’ingresso nell’abitazione di sua proprietà, il presunto boss era in compagnia della moglie e delle due figlie. Ai carabinieri non ha opposto resistenza e si è limitato a complimentarsi con i militari dell’Arma che hanno eseguito l’arresto. Lo stesso presunto boss (assistito dall’avvocato Giuseppe Bagnato) si sarebbe portato nella sua abitazione con l’intenzione di consegnarsi. Antonino Accorinti (in foto a sinistra), sfuggito mercoledì scorso alla cattura, è stato quindi condotto in caserma per le formalità di rito. E’ accusato di associazione mafiosa, estorsioni e intestazione fittizia di beni. In particolare, la Dda gli contesta di essere il reggente dell’omonima cosca di ‘ndrangheta che da anni detterebbe “legge” su ogni affare illecito a Briatico e dintorni, con una forte influenza anche sulle dinamiche politiche ed economiche del centro rivierasco del Vibonese.
Negli anni, Antonino Accorinti ha anche parte direttamente alla vita politica ed amministrativa di Briatico, infatti il 6 giugno del 1982 è stato eletto consigliere comunale di maggioranza, rieletto il 30 maggio 1988, mentre dal dicembre 1990 al 25 settembre 1992 ha fatto parte della giunta municipale quale assessore. Il 21 novembre del 1993 è stato rieletto consigliere di minoranza.
Emerge quindi già negli anni ’80 e ‘90 l’interesse di Antonino Accorinti per la vita politica briaticese, tanto che nel 1993 si è anche candidato alla testa di una lista civica contrapposta a quella capeggiata dal citato Antonio Casuscelli Di Tocco poi eletto sindaco (e ricoprì tale incarico dal 1993 al 1997 e dal 1997 al 2002). Antonino Accorinti era stato eletto consigliere comunale nelle fila del P.S.I. (Partito socilista italiano. (m.f.)
Due persone, tra cui un appartenente alle forze di polizia, ritenute responsabili di concorso esterno in associazione mafiosa, sono state arrestate e poste ai domiciliari
Due persone, tra cui un appartenente alle forze di polizia, ritenuti responsabili di concorso esterno in associazione mafiosa, sono stati arrestati e posti ai domiciliari nel corso di un’operazione effettuata da polizia e carabinieri a Cosenza. Gli arresti rientrano in una piu’ ampia attivita’ investigativa, condotta dai pm Vincenzo Luberto e Pierpaolo Bruni della DDA di Catanzaro, svolta dalla squadra mobile della Questura di Cosenza e dal Reparto operativo del Comando provinciale dei carabinieri di Cosenza, che ha permesso gia’ di disarticolare un gruppo di criminalita’ organizzata egemone in citta’ e nel suo hinterland. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terra’ a Catanzaro, alle ore 11 presso la sede della Procura della Repubblica. (AGI)
E’ quanto emerge dall’inchiesta “Costa pulita” della Dda che dedica un capitolo alle ingerenze degli Accorinti nell’Affrontata e nella processione a mare della Madonna
di GIUSEPPE BAGLIVO
Che fra le caratteristiche della ‘ndrangheta vi sia anche un profondo e distorto legame con il mondo religioso è ormai assodato da anni. Non fa eccezione in tal senso il paese di Briatico dove – come emerge chiaramente dall’inchiesta “Costa pulita” – da anni la “famiglia” Accorinti si sarebbe data da fare per organizzare in prima persona cerimonie, feste e processioni. Un modo, secondo gli inquirenti, per manifestare all’esterno tutto il loro “potere”, complice una sub-cultura mafiosa ed una popolazione locale spesso silente e accondiscendente verso un “modus operandi” preoccupante quanto palese ed oggetto in questo caso pure di dura condanna da parte di due sacerdoti che hanno operato a Briatico, in alcuni casi costretti a subire i soprusi dei clan.
La processione a mare della Madonna del Monte Carmelo. Si svolge ogni anno a Briatico il 15 luglio e rende omaggio alla statua della Madonna del Monte Carmelo. La statua della Vergine, dopo una breve processione a terra, viene collocata a bordo di un’imbarcazione nei pressi del porticciolo di Briatico e successivamente trasportata lungo la costa in segno di profonda devozione.
Negli ultimi anni, però, la gestione dell’intero evento, ivi compreso l’approntamento della nave utilizzata per il trasporto del fercolo, risulta essere stata (come documentano i carabinieri) “appannaggio esclusivo – rimarca la Dda di Catanzaro – della ‘ndrina Accorinti”.
Antonino Accorinti
Agli atti finisce così la cerimonia svoltasi il 15 luglio del 2012, con la statua della Madonna trasportata a bordo dell’imbarcazione denominata “Etica” e “condotta – scrivono gli inquirenti – dallo stesso Antonino Accorinti”, ovvero da quello che viene indicato come il capo dell’omonimo clan, seguita da altre imbarcazioni. A bordo della motonave i carabinieri hanno segnalato la presenza di: “ Carmela Napoli, moglie di Nino Accorinti, Pamela Napoli, figlia di Nino Accorinti, Salvatore Muggeri, genero di Nino Accorinti, Francesco Marchese, nipote di Nino Accorinti, Giuseppe Armando Bonavita, figlio di Pino Bonavita”. Oltre a tali persone, ad avviso degli investigatori, a bordo del natante vi erano anche “comuni cittadini, due sacerdoti, alcuni musicanti ed un vigile urbano”.
Le imposizioni ai sacerdoti. Per gli inquirenti, ci si trova dinanzi ad una “vera e propria forma di imposizione, operata dalla ‘ndrina su don Salvatore Lavorato”, già parroco dal 2009 della parrocchia di San Nicola di Briatico e della parrocchia di San Leone Magno di San Leo di Briatico. Quest’ultimo, in ossequio a specifiche direttive avute dalla Diocesi di Mileto – Tropea – Nicotera, si “sarebbe inizialmente opposto – spiegano i magistrati della Dda – allo svolgimento delle celebrazioni pagane conseguenti alla festa della Madonna a mare. Nello specifico emerge la volontà degli Accorinti di organizzare – in costanza con la tradizionale processione a mare – una festa con la partecipazione di un gruppo musicale e con l’esplosione di alcuni giochi pirotecnici”. Alla fine, secondo gli investigatori, la “pressione e l’insistenza di Antonio Accorinti”, figlio di Nino, “riescono a spuntarla sul prelato”. Ecco così che Antonio Accorinti si sarebbe occupato “di contattare un gruppo folk denominato Zona Briganti, spiegando ad un uomo non meglio identificato modalità e forme di pagamento per il compenso degli artisti”, con il reperimento dei fondi che sarebbe stato operato in una comunità di cittadini di Briatico presente a Milano. Antonio Accorinti, ad avviso degli investogatori, sarebbe arrivato “addirittura a far modificare la data della novena per il tramite dell’assessore comunale Sergio Bagnato”.
Antonio Accorinti
Anche nel 2010 Antonio Accorinti si sarebbe prodigato nell’organizzazione della festa. “In particolare – evidenziano i pm Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni – si è impegnato a contattare la cantante Ivana Spagna che si è esibita nella serata del 16 luglio 2010”. Illuminanti per i magistrati sono a tal proposito le dichiarazioni di don Luigino Fuschi, precedente parroco di Briatico il quale ha confermato la “totale predominanza nelle manifestazioni religiose di Briatico da parte degli Accorinti”, con la popolazione locale che non avrebbe mai, a detta del prelato, coadiuvato lo stesso, “fatta eccezione per poche persone le quali non erano serene”, nell’organizzazione della ricorrenza. “Facevo fatica – ha dichiarato il sacerdote agli inquirenti – a trovare qualche volontario che si occupasse del trasporto delle statue”.
“In un’occasione – racconta il sacerdote agli investigatori – esponenti della famiglia Accorinti si proposero di modificare le finestre della chiesa del Carmine perché sono fisse e non si possono aprire. Io rifiutai la proposta perché la ritenevo un modo per imporsi. In tutto il periodo in cui sono stato parroco a Briatico, ovvero 2003/2009, la mia missione è stata ostacolata ed ignorata dalla maggior parte della popolazione. Specifico che certi soggetti del luogo – evidenzia il prelato – dovendo imporre il loro dominio nel paese, quando ciò non era possibile perché ad esempio il Comune era commissariato, si indirizzavano alla parrocchia nel tentativo di influenzare e dominarne l’attività pastorale. Quando invece il Comune era amministrato da una giunta, si dedicavano solamente all’attività svolta dai suoi componenti”.
Il sacerdote spiega quindi che:“nella domanda che inoltravo alla Capitaneria di Porto di Vibo Marina ricordo che dovevo indicarvi il nome dell’imbarcazione che avrebbe trasportato la statua della Madonna. Il nome di detta imbarcazione mi veniva dato dalla popolazione. In una circostanza ricordo sicuramente che mi venne indicata una di proprietà della famiglia Accorinti. So che una volta – continua il sacerdote – terminata l’uscita al mare con la Madonna, hanno chiesto di portarla all’inizio del loro campeggio di proprietà degli Accorinti ove, una volta giunta, hanno fatto dei grandi fuochi artificiali, molto più grandi di quelli che io facevo il giorno della festa. Non ho mai seguito la processione fino al campeggio. Secondo me la statua non doveva essere portata davanti a proprietà private“.
Il sacerdote racconta poi di aver “ricevuto numerose lettere anonime con cui veniva manifestato il disappunto – rimarca il prelato – per la mia presenza perché impediva che ritornasse il parroco precedente, padre Zeffirino. Una volta mi hanno danneggiato l’autovettura, fatto che ho denunciato ai carabinieri del posto. Non ho un ricordo felice di quel periodo. Sono venuto via volentieri “.
L’Affruntata. Nelle celebrazioni del 2013, 2014 e 2015 i carabinieri hanno infine registrato che anche in tale cerimonia religiosa, che si svolge il giorno di Pasqua, vi era la presenza costante tra i “portatori” delle statue di soggetti in massima parte “o riconducibili o facenti parte delle compagini criminali” del paese. Gli investigatori non mancano infatti di elencare negli atti dell’inchiesta “Costa pulita” la presenza fra i portatori delle statue di soggetti “vicini sia al clan Melluso che al clan Accorinti”.
Quattro persone sono state arrestate dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria nell’ambito di un’operazione denominata in codice “Guardiano”. I quattro, raggiunti da ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip su richiesta della Dda reggina, sono accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso ed estorsione aggravata dal metodo mafioso. Dalle indagini sarebbe emersa l’appartenenza, con ruolo di vertice, di uno degli indagati alla cosca Alvaro di Sinopoli, detti “Carni ‘i cani”. In particolare, con l’operazione sarebbe stata fatta luce sul “sistema di guardiania” che la criminalità organizzata avrebbe applicato diffusamente nei territori di competenza a chiunque possedesse un terreno potenzialmente produttivo di reddito. In alcuni casi, grazie alla collaborazione delle vittime dell’estorsione, è stato accertato che i proprietari sarebbero stati spogliati del bene e costretti a vendere i fondi a prezzi notevolmente inferiori a quelli di mercato. I fondi sottratti illecitamente, per una superficie complessiva di oltre 55 ettari e un valore stimato di un milione e mezzo di euro, sono stati sequestrati. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa al Comando provinciale dei carabinieri di Reggio Calabria alle ore 11. (Agi)
La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria per un nuovo processo di secondo grado le condanne nei confronti di 9 imputati coinvolti nell’operazione antimafia “Circolo Formato” scattata il 3 maggio 2011. Processo da rifare per: Rocco Mazzaferro (12 anni e 4 mesi); Luca Mazzaferro (11 anni); Guerino Mazzaferro (che era stato condannato a 10 anni e 8 mesi); Vincenzo Commisso (9 anni); Salvatore Novembre (9 anni e 9 mesi); Giuseppe Oppedisano ( 9 anni); Salvatore Frascà (9 anni e 8 mesi); Giuseppe Pugliese (6 anni e 8 mesi); Domenico Tarzia (12 anni). Associazione mafiosa, ed altri reati-fine (aggravati dall’art. 7 della legge antimafia), i reati a vario titolo contestati.
Annullata senza rinvio, e quindi definitivamente assolto, Francesco Marrapodi, ex assessore ai lavori pubblici del comune di Marina di Gioiosa Jonica, che era stato condannato a 6 anni e 6 mesi. (red 2)
Gli inquirenti hanno chiarito le pressioni esercitate dalla famiglia di Sinopoli per avere mano libera su una serie di appezzamenti
Una conferenza stampa alla presenza degli inquirenti nella sede del Comando provinciale carabinieri di Reggio Calabria ha svelato i dettagli dell’operazione condotta all’alba dalle forze dell’ordine. A chiarire ogni dettaglio, il procuratore di Reggio Federico Cafiero De Raho, il procuratore aggiunto Gaetano Paci, il comandante provinciale dei Carabinieri Lorenzo Falferi e i comandanti Franzese e Mucci.
I quattro arrestati. Le persone raggiunte dal provvedimento di arresto sono Nicola Alvaro, Antonio Alvaro, Natale Cutrì e Grazia Violi. (FOTO) Nicola Alvaro, esponente di maggior rilievo della cosca omonima era stato già condannato nel 2001 per il reato associazione mafiosa. L’uomo praticava estorsioni reiterate in danno dei proprietari terrieri con l’aiuto della moglie Grazia Violi, accusata di concorso in estorsione pluriaggravata e anche lei arrestata. Stessa accusa per Antonio Alvaro, figlio di Domenico identificato come il successore di del capostipite Cosimo. Arrestato anche Natale Cutrì, cugino di Antonio.
I reati. Nel mirino degli Alvaro la facoltosa famiglia Capua, proprietaria di diversi terreni a San Procopio. I Capua sono stati costretti dagli Alvaro, nel 1994 e nell’arco temporale che va dal 2006 al 2010, a vendere le proprietà a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato. La vendita veniva fatta sempre in favore di familiari di Rosa Alvaro e Immacolata Gioffrè, mogli rispettivamente di Antonio Alvaro e di Natale Cutrì. Nel 1994 la vendita fu ottenuta dopo intimidazioni pesanti tra cui l’omicidio del fattore dei Capua che a quel punto cedettero alle pressioni mafiose.
La dichiarazione. Il procuratore De Raho: “I proprietari terrieri hanno collaborato, ha detto il procuratore – e questo è un buon segnale perchè dimostra che ci si è resi conto che bisogna reagire. Ciò ci fa ben sperare per il futuro”.
Antonio AlvaroNicola AlvaroGrazia VioliNatale Cutrì
Il gip del Tribunale di Vibo Valentia, Alberto Filardo, ha convalidato il fermo nei confronti del sessantenne ritenuto dagli inquirenti il capo dell’omonima cosca operante a Briatico
Nino Accorinti resta in carcere. Il gip di Vibo Valentia, Alberto Filardo, ha infatti convalidato il fermo nei confronti del sessantenne, ha po emesso nei suoi confronti un’ordinanza di custodia cautelare in carcere e, contestualmente, ha trasmesso tutte le carte dell’inchiesta alla Procura distrettuale di Catanzaro competente per materia. I magistrati della Dda avranno ora venti giorni di tempo per presentare una nuova richiesta al competente gip distrettuale.
Accorinti, ritenuto dai pm Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni il capo indiscusso dell’omonima cosca egemone a Bratico e dintorni, arrestato l’altro ieri a completamento dell’operazione denominata “Costa pulita”, si è presentato davanti al giudice per l’interrogatorio di garanzia e difeso dall’avvocato Giuseppe Bagnato, ha risposto alle domande respingendo gli addebiti mossi nei suoi confronti dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro.